Il Messaggero, 11 dicembre 2019
Intervista a Donato Carrisi
«Si dice che i pazzi e i bambini vedano la realtà meglio degli altri; ma a volte la malattia mentale può essere una reazione razionale a una situazione inaccettabile». I bambini ci sembrano matti; chi dice di vedere i fantasmi viene preso per pazzo; ma il mondo, e le persone, non sono mai ciò che sembrano. L’ultimo romanzo di Donato Carrisi, La casa delle voci, appena pubblicato da Longanesi, è un thriller psicologico costruito con abilità, che attinge ai classici del genere e cattura il lettore come una calamita.
Il suo protagonista, Pietro Gerber, è uno psicologo e ipnotista infantile abile a cogliere, nelle parole dei bambini, tracce di ricordi dimenticati. È l’inizio di una nuova serie?
«Me lo sono chiesto anch’io; ma questo dipende dalle storie che voglio raccontare. Non voglio essere legato ai personaggi, perché penso sempre alla maledizione di sir Arthur Conan Doyle: soffriva tantissimo perché Sherlock Holmes era molto più famoso di lui».
In passato ha ripreso gli stessi personaggi, come ne Il gioco del suggeritore
«Si, e anche L’ipotesi del male e L’uomo del labirinto avevano la stessa poliziotta Mila Vasquez. Ma io devo divertirmi quando scrivo, altrimenti si annoiano anche i lettori. Sarebbe come un matrimonio, in cui ci sono alti e bassi. Piuttosto, preferisco le fughe d’amore».
Nel suo libro una donna ormai adulta, Hanna Hall, arriva da molto lontano per incontrare Gerber e affrontare i fantasmi della sua infanzia. Da subito, la tradizionale distanza tra paziente e terapeuta viene meno. E anche quella tra il lettore e la storia, è così?
«C’è un avvicinamento, certo. In un thriller puramente psicologico, senza vittime, senza carnefici, questo meccanismo è importante. Il lettore prende le parti ora del terapista, ora della paziente; si ritrova immerso in una storia di cui non è in grado di prevedere l’evoluzione; allora si sente sperduto e, assieme, incollato alle pagine».
È vero che i bambini possiedono un talento speciale per vedere cose impossibili?
«Sì, tant’è vero che il loro approccio con il mondo è più lucido e lungimirante di quello degli adulti. C’è qualcosa che li lega all’energia dell’Universo, a quel mondo oscuro che ci precede tutti».
L’innocenza può anche essere causa di pericoli.
«Nell’ambito della famiglia, i bambini tendono a fidarsi ciecamente di mamma e papà. Per quanto riguarda l’incoscienza di fare del male, anche il ragazzino che uccide la formica sa benissimo di fare qualcosa di malvagio; e sa che nessuno lo rimprovererà per questo».
Lei è stato un bambino felice?
«Sì, ho avuto la fortuna di avere una bellissima infanzia, magica, carica di mistero».
Ha ricordi soprannaturali, di cui non si dà una spiegazione?
«Come no, tantissimi. Forse sono stati anche la mia fortuna».
Per esempio?
«Una notte, ero molto piccolo, il telefono squillò e andai a rispondere. Riconobbi una voce maschile familiare, che disse soltanto ciao e riattaccò. La mattina dopo scoprimmo che proprio quella notte era venuto a mancare un caro amico di famiglia».
Crede sia possibile discernere tra realtà e finzione, nelle parole dei bambini?
«Sì e alcuni terapeuti ci riescono benissimo. L’ipnosi è uno di questi metodi. La bugia di un bambino non è mai casuale, è sempre espressione di qualcosa che ha visto o subito, di qualcosa che gli adulti non sanno».
Tutti siamo padri, madri o siamo stati figli, e il meccanismo di identificazione scatta, implacabile. È questo l’effetto che voleva ottenere?
«Sì, cerco sempre di seminare o costruire la tensione all’interno del romanzo».
Ci sono modelli letterari a cui si ispira?
«Sicuramente questo lavoro è ispirato a Stephen King, che è in assoluto il mio autore preferito».
Il terrore di restare sepolti vivi è un tema antico quanto la letteratura.
«Qui c’è l’influenza di Edgar Allan Poe; ma anche Quentin Tarantino ha usato questo tema in Kill Bill».
Lei è anche un apprezzato regista: sta già pensando a u
na versione cinematografica de La casa delle voci?
«Ogni volta che scrivo un libro penso a quello che sarebbe l’effetto finale, all’immagine sullo schermo. Ma certo, da qui a decidere di farne un film, devono accadere tante cose: bisogna trovare lo stile giusto, i soldi per realizzarlo Certe volte mi chiedono: perché non hai ancora fatto un film da Il suggeritore? Perché, rispondo, è una produzione complessa. Ci vogliono dei mezzi, bisogna capire quando è il momento giusto».
Questa volta, a differenza di altri suoi lavori in cui l’ambientazione è indistinta, si parte da Firenze.
«In altri romanzi ho utilizzato Roma. Io mi lascio affascinare da quelle che sono le città nere italiane, dove si può facilmente ambientare un thriller. Firenze era un mio pallino da anni. Ci andavo, ci tornavo, cercavo la storia giusta In questo caso racconto la città per spicchi, per frammenti. La città è una protagonista silenziosa».
Hanna Hall dice: la mia famiglia è un luogo. È la ricerca di quel luogo a scatenare l’impianto narrativo?
«Certo, lo ha colto in pieno: la famiglia è un luogo, a prescindere dall’ambiente. Quando decide di collocarsi in un luogo, quel luogo diventa casa, immediatamente. E la casa è legata alle voci. Le case silenziose non sono case, sono ricoveri, rifugi, nascondigli».
Sta già pensando al prossimo libro?
«Sì, certo. Non mi posso fermare: se c’è un’idea, la colgo subito. I miei libri hanno una gestazione lunga, non tanto per la scrittura quanto per la ricerca, di solito un paio d’anni».
Può anticiparci qualcosa?
«No, siamo ancora in fase embrionale. È come se le dicessi che ho intenzione di sposare una donna che ho conosciuto da dieci minuti. Mi prenderebbe per matto».