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 2019  dicembre 11 Mercoledì calendario

Italiani, grandissimi produttori di immondizia

Più che un cestino, uno specchio. Molto realistico, e assai meno deformante (o anamorfico) di quello che si potrebbe pensare. Nella produzione dei rifiuti si rispecchiano, infatti, i connotati delle (tradizionali) società industriali, come di quelle (più recenti) postindustriali. E, nel caso italiano, c’è pure un di più, perché quanto avviene dalle parti delle discariche e dei termovalorizzatori non costituisce solo un compendio pressoché completo dei comportamenti economici dei nostri connazionali. Ma pure una sintesi esemplare della vita pubblica. E, soprattutto, delle sue contraddizioni, le quali si riflettono difatti tra un rifiuto e l’altro (che, notoriamente, è anche una risorsa).
I dati del Rapporto Rifiuti Urbani edizione 2019 dell’Ispra segnalano per il 2018 un incremento nella loro produzione del 2%; un numero che viene considerato in linea con la crescita del Pil nel periodo corrispondente. Vale a dire, 30,2 milioni di tonnellate di rifiuti urbani dopo 6 anni in cui si erano attestati sotto la cifra dei 30 milioni. Ed ecco che intorno a questi indicatori si aggrovigliano interpretazioni differenti. E contraddittorie, giustappunto. Se si producono più rifiuti, allora è vero, come direbbe qualcuno, che i ristoranti sono pieni. E, dunque, se gli italiani consumano di più, significa anche che stanno meno peggio di quanto sostenuto da svariate altre statistiche. Un’esegesi un po’ «spannometrica», ma non così peregrina, perché a colmare i divari ci sono sempre quei giganteschi correttori (e «ammortizzatori» sociali, in negativo) che rispondono ai nomi di evasione ed elusione fiscale. Secondo alcuni, più che «in scontrino» (e come dar loro torto?), si dovrebbe dire «in monnezza veritas». La «spazzaturologia» come scienza sociale ed economica, per l’appunto; e ci troveremmo così dalle parti della garbology, la «scienza dei rifiuti» inventata dall’antropologo Usa William Rathje (che è stato anche un acerrimo nemico del riciclaggio). Tuttavia, sempre per aumentare le contraddizioni, non è tutto aureo il rifiuto che luccica perché, come potrebbe argomentare con una certa fondatezza qualcun altro, si tratta degli scarti di una serie di stili di consumo low cost e al ribasso, improntati a un certo impoverimento e al downgrading dei beni acquistati. Insomma, poco carciofo e tante foglie che devono poi essere smaltite (analogamente agli imballaggi).
Lo studio dell’Ispra evidenzia che il rifiuto più raccolto è quello di tipo organico e, al contempo, che diverse regioni non risultano dotate degli impianti di trattamento adeguati. Difatti, 500mila tonnellate di rifiuti vengono esportate all’estero, alla faccia dell’economia circolare e della transizione ecologica. E, così, a fronte del discorso ecologista del presidente Mattarella all’ultima assemblea dell’Anci, la politica locale continua, in parecchi suoi settori, a latitare (Roma docet). D’altronde, proprio le battaglie contro le infrastrutture di smaltimento dei rifiuti e i comitati locali da «sindrome Nimby» costituiscono un serbatoio di facile consenso per vari imprenditori politici populisti. Più che ecologia profonda, voto pronta cassa. Al tempo stesso, assistiamo alla confusione della classe nazionale di governo che esaurisce tutta la sua «creatività» politica escogitando una plastic (e una sugar) tax. Proprio quando appare evidente a tutti che l’economia verde rappresenta un importante motore di sviluppo (sostenibile), la neoinsediata Commissione von der Leyen lancia il «Green New Deal» europeo e la «generazione Greta» chiede un cambiamento radicale della mentalità. Per la serie: (in)capacità di cogliere i segni del tempo. Certo, alla fine, questo è un Paese dove, fortunatamente, grazie all’impresa e alla società civile cresce l’economia circolare. Ma anche dove, sfortunatamente, di circolare c’è soprattutto il circolo vizioso delle contraddizioni. —