Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  dicembre 11 Mercoledì calendario

Diciott’anni di bugie sulla guerra in Afghanistan

WASHINGTON È la «storia segreta» della guerra in Afghanistan. Diciotto anni di proclami frettolosi, errori di valutazione, senza riuscire a identificare i nemici e a trovare una via d’uscita. Dopo tre anni di battaglia legale il Washington Post ha ottenuto il rilascio degli «Afghanistan Papers», i documenti riservati custoditi dal governo: oltre 2 mila pagine di appunti, messaggi, interviste confidenziali con alti ufficiali, generali compresi, diplomatici, funzionari coinvolti nel conflitto cominciato nel settembre del 2001 dopo l’attacco alle Torri Gemelle.Dal 2001 gli Stati Uniti hanno schierato circa 775 mila militari in Afghanistan e hanno dovuto contare 2.400 vittime e oltre 23 mila feriti.
L’illusione di BushQuando George W. Bush decise di attaccare Kabul l’obiettivo era chiaro: distruggere Al Qaeda, evitare che si ricreassero le condizioni per un altro attentato come quello del 11 settembre. Ma quella lucidità strategica durò solo pochi mesi. È questo il dato di fondo che emerge dalla lettura dei documenti: il presidente e i ministri, in particolare quello della Difesa, Donald Rumsfeld, smarrirono quasi subito il senso originario della missione. Distrutta Al Qaeda si iniziò a combattere con i talebani. Gli americani si fecero come risucchiare in un conflitto non pianificato, con nemici quasi invisibili, radicati sul territorio. Jeffrey Eggers, un ufficiale dei Navy Seal, all’epoca consigliere prima di Bush e poi di Barack Obama, rivela in una delle interviste raccolte dai funzionari dell’amministrazione: «Che cosa ha trasformato i talebani nei nostri nemici, quando eravamo stati colpiti da Al Qaeda? Il nostro sistema, nel suo complesso, era incapace di fare un passo indietro».
Proclami e realtàNel 2003 gli americani, appoggiati dagli alleati e dalla Nato, controllavano a mala pena poche aree del Paese. Ma per Bush la questione era già archiviata. La sua attenzione si era spostata sull’Iraq. Richard Haas, il coordinatore per l’Afghanistan, mise sull’avviso il presidente: «Suggerii di aumentare il numero dei soldati, portandoli da 8 mila a circa 20-25 mila. Ma non riuscii a vendere l’idea. Non c’era entusiasmo. C’era un senso profondo di impotenza». Eppure il primo maggio del 2003 Bush dichiarava la vittoria in Iraq; quello stesso giorno Rumsfeld annunciava la fine «dei massicci combattimenti» in Afghanistan.
In quel periodo si compiono scelte importanti, ancora oggi in discussione. Bush, Obama e l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton rifiutarono ogni tipo di trattativa con i talebani. I due presidenti tollerarono il doppio gioco del Pakistan. Ashfaq Kayani, capo dei servizi segreti pachistani, confidava all’ambasciatore americano Ryan Crocker: «Certo che noi puntiamo su diversi tavoli. Un giorno voi ve ne andrete e noi non vogliamo ritrovarci con un nuovo nemico mortale: i talebani».
L’errore di ObamaIl 1° dicembre 2009 Obama lancia il piano «surge»: invio di altri 30 mila militari in Afghanistan in aggiunta ai 70 mila già presenti e agli altri 50 mila dislocati dalla Nato e dagli alleati. Il generale David Petraeus, all’epoca al capo del «Central Command», annota in un colloquio riservato: «Due giorni prima di quel discorso fummo tutti convocati nello Studio Ovale. Nessuno di noi (generali, consiglieri, ndr) aveva mai sentito parlare di quel progetto. Ci fu un giro di opinioni, ma il tono era: prendere o lasciare». Dopo quella riunione, però, Obama aggiunse un particolare fondamentale: gli americani avrebbero cominciato a ritirarsi dopo 18 mesi. Commento di Barnett Rubin, esperto di Afghanistan al Dipartimento di Stato: «Restammo tutti stupefatti. C’era una contraddizione insanabile in quella strategia. Se metti una scadenza ai rinforzi, è inutile inviarli». I talebani dovevano semplicemente tenere un basso profilo per un anno e mezzo.


Lezioni attuali

I «papers» pongono questioni a tutt’oggi irrisolte: l’Afghanistan può essere pacificato? Si deve trattare con i talebani? Oppure vanno combattuti inviando altri militari? E per quanto tempo? Ci si può fidare del Pakistan?

Ora tocca a Donald Trump che forse ha la possibilità di scrivere l’ultimo capitolo della guerra più lunga e meno compresa.