ItaliaOggi, 11 dicembre 2019
La signora dei giornali al Bauen (Buenos Aires)
Il Bauen era un palazzone in stile porteño-teutonico che si ergeva massiccio, con due piani di tetti di ardesia all’alsaziana, all’incrocio di Callao y Corrientes. Era uno dei nuovi grandi alberghi di Buenos Aires, aperti in fretta e furia per il mondiale di calcio del 1978. I suoi clienti erano giornalisti, dirigenti, tifosi ricchi e naturalmente poliziotti occulti, le spie all’epoca onnipresenti dei famigerati generali della Giunta militare.La risorsa più interessante del Bauen, a parte la vicinanza con il ristorante La Cavaña, ottimo e molto in voga ai tempi, erano i coniugi Grelle. Un signore e una signora ticinesi, che di mestiere facevano gli avviatori di grand hotel nuovi: un mestiere allora sconosciuto a me e oggi, forse, ancora a tanti. Aprire e lanciare un nuovo grand hotel non è la cosa più semplice del mondo. Bisogna pensare a tutto, che vuol dire a tantissime esigenze: dal personale dei piani alle lavanderie. Organizzare tutto: dal ristorante all’amministrazione, dal bar alla sicurezza. Provvedere a tutto: dalla conciergèrie ai grandi eventi, dai rapporti legali con i dipendenti e con gli uffici pubblici alla pubblicità, all’ufficio stampa e promozione, dalla guardia medica al rifornimento continuo di tutto ciò che si consuma.
Un gruppo finanziario decide di investire in un grande hotel, ma quando l’edificio è costruito bisogna arredarlo, riempirlo, mettere in funzione la struttura; e deve funzionare tutto fin dal primo giorno.
Per questo c’erano i coniugi Grelle e quelli che fanno il loro complicato ma affascinante lavoro. Girano il mondo, fermandosi per almeno tre anni, l’abituale durata di un contratto per apertura e lancio. I Grelle avevano aperto un cinque stelle a Manila, Filippine, prima di mettersi all’opera al Bauen di Buenos Aires; e per dopo avevano già il contratto per aprire un nuovo cinquestelle a Madrid. Naturalmente dovevano mantenersi più neutrali di un ambasciatore dell’Onu e difatti, nelle amabili conversazioni al bar non parlavano mai né di calcio, né di politica, dicendo diplomaticamente di non intendersene.
Con un’altra persona mi intrattenevo a parlare, al Bauen, nei pochi momenti liberi concessimi dal lavoro quotidiano, incalzante sempre e complicato dal fuso orario stavolta.
Era la signora dei giornali, che presidiava l’edicola all’interno della hall, subito accanto all’imponente porta girevole dell’ingresso. Una donna sulla cinquantina, appesantita dalle sveglie all’alba e dagli orari continuati. I capelli fatti su in qualche modo, una camicetta modesta e un sorriso sinceramente cordiale stampato fisso in faccia.
Parlava volentieri con noi italiani, perché anche i suoi antenati erano venuti dall’Italia: abruzzesi i nonni, contadini, lavoravano la terra; poi suo padre era diventato pescatore a Mar del Plata, guadagnava meglio ma brutto mestiere, brutte acque, fredde e pericolose. A me e a molti altri colleghi teneva da parte i giornali italiani, tirando la mazzetta da sotto il banco con il suo solito sorriso affabile, probabilmente anche affettuoso.
Una mattina non aveva però voglia di sorridere. Si chinò a prendere da sotto il banco la mazzetta dei miei giornali e, riemergendo a occhi bassi, sussurrò: «Se queda un ratito aquì, por favor»? Risposi di sì, certo, mi fermavo un momento.
Non sapevo perché, ma mi fermavo. Lei sistemò ancora giornali, riviste, guide turistiche, libri sul banco, sempre lanciando furtive occhiate ai due ceffi piccoli, baffuti e scuri che ogni giorno ciondolavano tra le poltrone della hall e l’ingresso. Erano le spie dei generali, ormai li conoscevano: erano lì ufficialmente per proteggerci, in realtà per controllarci. È sempre e dovunque così. Ma nell’Argentina del 1978 era più pericoloso che altrove.
Quando le parve che i due ceffi si fossero allontanati verso il salone interno, dove in fondo c’era il banco del bar, la signora dei giornali (che non mi disse mai il suo nome, né io glielo chiesi) finse di darmi una rivista per avvicinare la sua testa alla mia e dirmi in un soffio: «Tre giorni fa hanno preso mio figlio… gli amici me lo hanno detto oggi… manca da tre giorni».
Quindi, coprendosi il volto con la rivista che fingeva di porgermi, scoppiò in un pianto dirotto. Non sapevo cosa dire. Cercai di rincuorarla: «Ma no, forse si sono sbagliati, vedrà che tra qualche giorno torna a casa…». E lei, sempre piangendo, sempre col volto nascosto dietro alla rivista: «No, señor, no se equivocaron… todavia està a la Escuela Mecanica». Alle parole Escuela Mecanica un brivido alla schiena mi mozzò il fiato: sapevamo tutti che la esecrata Esma, la Escuela Superior Mecanica de l’Armada, comandata dall’ammiraglio Massena, era un terribile luogo di detenzione e tortura, dal quale si usciva solo per essere portati in aereo a trenta miglia dalla costa e scaricati vivi a mare per squali e barracuda.
Da quella mattina fermarmi a parlare con la signora dei giornali del Bauen mi pesava un po’, mi metteva addosso un moto di indignazione e di tristezza. Leggevo nei suoi occhi la pena sconfinata di una madre derubata del figlio, sentivo nelle sue parole rotte dal pianto il rancore e l’odio per gli assassini in alta uniforme del figlio. E vigliaccamente la sfuggivo, vergognandomi dell’impotenza di ogni mia azione e della inutilità di ogni mia parola.
Mi limitavo a domandare genericamente: «Que pasa?». E lei mi rispondeva, prendendo la mazzetta da sotto il banco, con una sconsolata scrollata di spalle e gli occhi sempre più pieni di lacrime. Al quarto giorno, alla mia solita domanda, la signora dei giornali rispose singhiozzando: «Me dicieron que saliò de la Escuela… Mi hanno detto che è uscito vivo dalla camera di tortura dei militari e questo vuol dire solo che lo hanno caricato su un aereo e sono andati a scaricarlo vivo, con tanti altri, nell’oceano… Vuol dire che non lo rivedrò più, mai più… nunca mas, el mi hijo, senhor, nunca mas».
Il mondiale di calcio del 1978, assegnato all’Argentina da un altro campione della destra fascista, il brasiliano Joao Havelange, successo alla presidenza della Fifa nel 1970 al conservatore inglese Sir Stanley Rous, si svolse in un surreale clima di finto ordine, che era, in realtà, repressione feroce, e di ostentata sospensione degli atti più abietti della giunta dei generali Videla, Massena e Agosti. Si sapeva di quello che succedeva, ma il mondiale non poteva essere turbato. Chiedevano un armistizio di ipocrito silenzio specialmente le televisioni, al cui miliardario business erano connessi tanto Havelange, ufficialmente imprenditore di logistica, quanto la famiglia tedesco-alsaziana Dassler, titolare dei marchi Adidas e Puma e di altre aziende pubblicitarie e promozionali collegate ai grandi eventi sportivi. Soltanto a sipario calato si fecero i conti dei desaparecidos nell’oceano: circa 30 mila, dei quali 9 mila individualmente identificati. Fu il declino dei generali, solo declino e quasi niente di più. Il loro carcere non fu lunghissimo, e dovette essere comunque confortevole. Videla morì a 87 anni, Massena a 85.
Ma una cosa era sapere, o intuire certe realtà criminali, e cosa ben diversa era raccogliere il dolore senza fine di una madre. La storia della signora dei giornali del Bauen mi colpì, mi coinvolse e dissi a me stesso che era giusto raccontarla, così come mi era passata per le mani. Senza commenti, senza considerazioni: il racconto e basta. Ne parlai con il direttore del Corriere che, dopo la volontaria fine del quinquennio di Piero Ottone, era da un anno Franco Di Bella.
Non erano gli anni più facili per maneggiare certi argomenti in via Solferino. Ottone se n’era andato, proprio perché aveva capito che i veri editori non erano più i Rizzoli, ma il potentato politico-finanziario di Cefis, la sua mano operativa Tassan Din, i fiancheggiatori più o meno occulti come Licio Gelli o come figure del milieu romano interessato a iniziative anche editoriali in Argentina. L’azienda del Corriere si ritrovò addirittura associata in una editrice porteña. Sviluppo che sarebbe stato impossibile, se il Corriere si fosse sentito più vicino ai montoneros che ai generali.
Posso dunque capire, a distanza di tanti anni e a mente fredda, la evasiva prudenza con la quale Franco Di Bella ascoltò in silenzio il mio racconto al telefono. Probabilmente, da cronista di razza dovette apprezzare pure il mio generoso coivolgimento. Ma da direttore di una testata che amministratori e manager avevano cacciato e stavano cacciando in tante opache avventure, non poté non rispondermi come garbatamente, fraternamente mi rispose: «Sì, la storia è bella, ma perché vuoi occupartene tu? Falla scrivere a Bugialli, lui ha più la mano a certi temi, tu pensa a Bearzot… Gli parlo io».
Non ne seppi più niente. Paolo Bugialli, mio amico carissimo e compianto, brillante inviato di politica e di varia, era un delizioso ricamatore di frasi e periodi, ironico, acuto, vivace, dunque maestro nello scrivere pezzi tanto avvincenti quanto non compromettenti. Dunque non scrisse mai la storia della signora dei giornali del Bauen, madre straziata di un desaparecido. Io non gli chiesi mai se Di Bella gliene avesse parlato. E tanto meno mi sognai di domandare a Di Bella se lo avesse fatto. Quando non è indispensabile mettere le carte in tavola, bisogna saper glissare con i colleghi, per non metterli in difficoltà.
Esattamente un anno più tardi, un famoso avvocato con la villa sulla collina di San Vito a Torino mi fece sapere, tramite il comune amico Luca, che gli avrebbe fatto piacere rivedermi. Andai in gran segreto, ma qualche ora dopo Guido Lajolo, grandissimo cronista della mia redazione al Corsera, sapeva già tutto. Lo seppe anche il direttore della Gazzetta dello Sport, Gino Palumbo, che una ventina d’anni prima mi aveva assunto al Corriere e che mi chiamò per dirmi: «Mi risulta che tu non escludi l’eventualità di lasciare il Corriere, dunque non sarebbe uno sgarbo a Di Bella se ti offrissi di venire in direzione alla Gazzetta. Ti interessa?». Ripensai alla storia della signora dei giornali del Bauen, che al Corriere non avevo potuto scrivere. E dissi di sì.