ItaliaOggi, 10 dicembre 2019
Francesco Cobello dirige il terzo polo per casi complessi dopo Humanitas e San Raffaele
Per capire chi sia veramente Francesco Cobello, 63 anni, direttore generale dell’Aoui, che nella «siglite» acuta di cui soffre la sanità italiana (Usl, Ulss, Asl, Ausl) sta per Azienda ospedaliera universitaria integrata, è sufficiente non trovare un posto libero nel parcheggio dell’Ospedale civile maggiore, meglio noto ai veronesi con il nome del quartiere, Borgo Trento, che lo ospita dal 1942, anche se la fondazione degli Istituti ospitalieri risale al Quattrocento. «Un attimo, scendo subito». Arriva in un baleno. Vede una Mini Minor verde fuori dagli stalli di sosta, estrae l’iPhone, lo punta sulla targa, clic: «Questo adesso lo sistemo io! Sono comportamenti che mi fanno impazzire».Cobello riacquista l’aplomb appena saliamo nel suo ufficio, più che altro una cappella privata. «Molti, quando entrano, mi chiedono se devono genuflettersi. La Vergine lignea è di un anonimo intagliatore veronese del XIV secolo. La Madonna con Bambino è di Domenico Brusasorzi, XV secolo. «Venga, venga, faccio strada. Ho la fortuna di lavorare in una pinacoteca». A fianco della scrivania della segretaria ecco La preghiera dell’arabo («bellissima!») di Pompeo Mariani, nipote di Mosè Bianchi. Nel lunghissimo corridoio, ecco il ritratto di Beatrice Martinengo di Canossa («bruttina, vero?, lei, intendo, non la tela in sé»). Nelle stanze dei dirigenti, altre Marie, altri Gesù, altri santi – di Liberale da Verona, di Nicola Giolfino, di Biagio Falcieri, di Pietro Rotari – accanto ai volti di gentiluomini e nobildonne immortalati per questi munifici lasciti che fanno dell’ospedale un museo. «Prima di arrivare a Verona, sono rimasto rinchiuso per cinque anni nel nosocomio di Cattinara, un bunker senza finestre, avevo diritto a un risarcimento», ride. Dal 2010 al 2014 è stato infatti direttore generale dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Trieste. In precedenza aveva ricoperto incarichi presso la Provincia e il Comune di Treviso, il Comune di Venezia e la Regione Veneto, dove come dirigente della direzione risorse socio-sanitarie gestiva il Fondo sanitario regionale, poco meno di 8 miliardi di euro l’anno, quanto il fatturato dell’Esselunga.
Cobello, sposato con Stefania, assistente sanitaria all’Usl di Venezia, due figli (Elisa, costumista al Teatro dell’Opera di Roma, e Giovanni, addetto al controllo qualità in una multinazionale), sta per mangiare l’ultimo panettone – pardon, pandoro – a Verona. Dopo cinque anni, il 31 dicembre scadrà il suo contratto. Però gira voce che il governatore Luca Zaia intenda mantenerlo alla guida dell’Aoui per un altro anno, in veste di commissario. Così, dopo il 31 dicembre 2020, teoricamente potrebbe ancora concorrere al rinnovo di tutti i direttori generali delle aziende ospedaliere venete e magari restare in città per un altro quinquennio, alla guida della più grande realtà produttiva veronese: 5.000 dipendenti e oltre 1.700 collaboratori (medici in formazione specialistica, borsisti per studio e ricerca, contrattisti libero-professionali).
A parte le due lauree, in Economia e commercio a Ca’ Foscari e in Scienze politiche a Padova, e l’abilitazione a revisore dei conti ottenuta dal ministero della Giustizia, i titoli per ambire a un secondo mandato non gli mancano. Fin dall’inizio di quello che sta per concludersi si è classificato al primo posto fra tutti i dirigenti della sanità in base al punteggio della Giunta regionale del Veneto, al quale concorrono vari parametri: tempi standard, esiti delle cure, liste d’attesa, tempi traccianti (li chiamano così, manco fossero proiettili) di prestazioni che vanno dalle cure oncologiche alla riduzione entro 48 ore di femori fratturati in pazienti di oltre 75 anni. E dati di bilancio, ovviamente. Che nel suo caso sono sorprendenti. «Ma non per merito mio», si schermisce.
E di chi, allora?
Del direttore generale che mi ha preceduto, Sandro Caffi. Mi ha lasciato in eredità investimenti colossali come il Polo chirurgico Confortini e l’Ospedale della donna e del bambino. Io ho solo raccolto i frutti. Ma non ci sarei riuscito senza i miei due principali collaboratori, il direttore sanitario Chiara Bovo e quello amministrativo Igino Eleopra, e soprattutto senza l’impegno di tutti i lavoratori dell’azienda.
Al suo arrivo nel 2015 il bilancio com’era?
Giocoforza in rosso.
Di quanto?
Considerando l’intero quinquennio precedente, 105 milioni di euro. Da quando sono qui, è sempre in attivo, per un totale, fino al 2018, di 42,5 milioni di euro. L’anno scorso l’utile è stato da record, 16,1 milioni, 15 dei quali accantonati per investimenti prima della chiusura del bilancio.
Da dove arriva questo avanzo?
Dai finanziamenti a tariffa pagati dalle Usl di provenienza dei pazienti, pari a 60 milioni di euro, nonostante la degenza media sia diminuita dagli 8,7 giorni del 2014 ai 7,8 del 2018. Verona esporta salute, per questo siamo in attivo. Per i malati di molte regioni, in primis Lombardia ed Emilia Romagna, risultiamo assai attrattivi.
Credevo quelle del Sud.
Anche, ma in misura minore. La Sicilia figura al terzo posto. Seguono Trentino, Puglia, Campania e Alto Adige.
Bilancio dei cinque anni trascorsi a Verona?
Ci sono stato da papa, pur mantenendo la famiglia a Mestre. Molti ricordi affettivi mi legano a questa città. Sono originario del Lido di Venezia, però mio padre Eliseo, morto dieci anni fa, era nato nel 1929 in Valpantena, dove i suoi facevano i contadini. La mamma, Caterina Castagnaro, era nativa di Monteforte. Durante la Seconda guerra mondiale, papà guidava i camion militari sul fronte jugoslavo. Tornato a casa, fu assunto come autista di bus dall’Acnil, l’azienda di trasporto terrestre del Lido. Lì conobbe mia madre Elsa, veneziana doc, che ha 93 anni.
Quindi per metà c’è sangue scaligero nelle sue vene.
Eh, ciò, varda ti! Passavo l’estate dai parenti nella campagna veronese. Una volta cresciuto, le mie gite erano in città dalle due zie, sorelle di mio padre, che allora abitavano in via Sirtori e poi traslocarono in via Locchi. Il massimo del divertimento era stare nel negozio di frutta e verdura che Attilio Zangrandi, marito di una delle due, aveva vicino all’Arena.
Mi par di capire che resterebbe volentieri a Verona.
Questo non dipende da me.
E se le daranno il benservito, che cosa farà?
Non certo il pensionato. Un posto da revisore di conti o da sindaco di qualche società lo trovo. Lavorare è sempre stato il mio hobby. Sono perito elettronico industriale, uscito dalla maturità con 60, e da ragazzo tiravo cavi elettrici a Marghera. Da 40 e passa anni sto nel settore pubblico, mi piacerebbe rimanerci. Lo amo.
Che competenze deve avere il direttore generale di un’azienda ospedaliera?
Tanto buonsenso e capacità di ascolto. Nel mio ufficio arrivano soprattutto le grane. Il sistema delle relazioni sindacali è complesso.
Mi faccia l’esempio di una grana che le è toccata.
Avviare le 30 nuove sale operatorie del Polo Confortini non è stata una passeggiata. Lo abbiamo fatto in corsa, ma con risultati più che soddisfacenti, passando dai 36.944 interventi chirurgici del 2015 ai 37.911 del 2018, una media di 150 al giorno, se si escludono i fine settimana. Ne restano da attivare ancora due.
Quanti pazienti ricoverate in un anno?
Le dico quanti ne accettiamo nelle 24 ore fra Borgo Trento e il Policlinico di Borgo Roma: 1.050. Anche qui con numeri in aumento: dai 44.830 ricoveri del 2014 ai 49.265 del 2018. Aggiunga 170 accessi quotidiani ai day hospital, 360 ai pronto soccorso e 4.000 prestazioni ambulatoriali. È come se ogni giorno gli abitanti di un paese delle dimensioni di Casaleone si trasferissero tutti nelle nostre strutture. Nelle 24 ore facciamo anche nascere mediamente 9 bambini.
Quanto costa un giorno di ricovero in ospedale?
Fra i 700 e gli 800 euro.
Più di una suite all’hotel Due Torri.
Però questo è meglio di un albergo.
Chiunque può farsi curare dove più gli aggrada, andando lontano dal luogo di residenza?
Sì. La mobilità sanitaria è libera per legge. Il diritto alla salute è sancito dall’articolo 32 della Costituzione. Non è un bene di mercato.
I pazienti di altre regioni non tolgono qualcosa ai veronesi?
Al contrario, sono una grande risorsa. Questa è un’azienda nazionale. (Indica il presidente Sergio Mattarella nel ritratto ufficiale appeso alle sue spalle, ndr). Anzi, internazionale.
Nientemeno.
Ci sono americani e tedeschi che vengono a farsi curare nei nostri ospedali, ovviamente con tariffe private, perché spendono meno che nei loro Paesi. Nel 2018 i degenti stranieri sono stati 828, quarto posto nella classifica dei non residenti in regione, per un incasso di 4,3 milioni di euro.
Questa poi!
Ha idea di quanto costi negli Stati Uniti o in Germania una cura disintossicante dalle più comuni dipendenze, tipo droga, fumo o ludopatia? Conviene di più da noi. Dopodiché assistiamo anche gli stranieri che si ammalano o hanno un infortunio a Verona. Ricordo il caso di un’americana coinvolta in un incidente con la bici. Credo che dall’ospedale abbia telefonato al presidente Barack Obama, suo amico. Ma non ce n’era bisogno: i nostri l’avevano già operata talmente bene che venne in visita l’ambasciatore degli Usa per ringraziarci. Da allora, ogni anno ci arriva l’invito per i festeggiamenti del 4 luglio in occasione dell’Independence day.
Assistete solo stranieri con regolare permesso di soggiorno?
Assistiamo tutti. Una nazione civile non lascia a terra nessuno. Il recupero delle somme per le degenze avviene nei Paesi d’origine attraverso il ministero degli Esteri. Siamo un’azienda a carattere sociale, non bisogna mai dimenticarlo.
Se un’islamica pretende d’essere visitata da un medico donna, che fate?
Non si è mai posto il caso, neppure quando dirigevo l’ospedale di Trieste. La mia opinione è che la visita il medico di turno, uomo o donna che sia.
A quanto ammonta il bilancio dell’Aoui?
A poco più di 593 milioni.
I costi più rilevanti?
Quelli per il personale, pari a quasi 224 milioni di euro, che incidono per il 38 per cento, seguiti da quelli per i farmaci, pari a oltre 111 milioni, che assorbono poco meno di un quinto dell’intero bilancio.
Ma qui un pasto o una siringa costano come in Calabria, per fare un esempio?
Fra colazione, pranzo e cena, in un giorno spendiamo 11,013 euro a paziente, Iva esclusa. Per una siringa 0,063 euro, sempre Iva esclusa. Ignoro quali siano le uscite al Sud, ma la dice lunga un fatto: il nostro direttore sanitario, la dottoressa Bovo, è stata inserita dal governo nell’unità di crisi prevista dal decreto Calabria, che ha commissariato in toto la sanità di quella regione.
Come si ottengono i risparmi sulla salute?
Con l’appropriatezza delle cure. Va dato ai pazienti ciò di cui hanno bisogno, non di più.
La lamentela più diffusa è sui tempi di attesa per un esame o per una visita specialistica.
I dati attestano che siamo entro i margini definiti dalla Regione.
Poi ci sono le proteste per i tempi di attesa nei pronto soccorso.
Vanno considerati posti di frontiera. Il personale che vi lavora ha la mia solidarietà. I tempi non sono eccezionali, però migliori che altrove. Non conosco un solo pronto soccorso in Italia che non calamiti le proteste degli utenti.
Altra lamentela: non si spende per rinnovare le attrezzature.
In linea generale, è la più giustificata. Ma a Verona disponiamo di 7 risonanze magnetiche, 7 Tac fra cui una tomografia a emissione di positroni, 3 acceleratori lineari, 7 angiografi e poi la Iort che associa la radioterapia all’intervento chirurgico, il Da Vinci per la chirurgia robotica, Spect Tac, Tomotherapy, Gamma Knife, Mrg Fus per la chirurgia con ultrasuoni focalizzati guidati dalla risonanza magnetica. Non per nulla siamo terzi in Italia, dopo la clinica Humanitas e l’ospedale San Raffaele di Milano, come polo d’attrazione per i casi ad alta complessità. E al quinto posto, dopo Torino, Padova, Pisa e Bologna, per i trapianti d’organo.
Enzo Biagi mi diceva sempre: «La parola d’ordine, quando entri in un ospedale e vuoi uscirne vivo, è: chi conosci?».
Devo dissentire da un giornalista che stimavo. Qui la parola d’ordine è: trattiamo tutti nello stesso modo, il migliore possibile. Le lagnanze arrivano su questa scrivania. Ebbene, la stupirò: il 60 per cento delle segnalazioni è fatto da ringraziamenti e complimenti per l’assistenza ricevuta.
È vero che sulle liste di attesa per ricoveri e interventi chirurgici in certi reparti vigilano le forze dell’ordine?
No. Vigilano i medici, a cominciare da quelli di base, che decidono l’accettazione in base a quattro priorità: urgente, breve, differita, programmabile.
Mancano i medici.
Vero. È un problema storico ed endemico, perché riguarda tutta l’Italia. Questo Paese ha sbagliato nel pianificare le specializzazioni per il futuro e così oggi abbiamo carenza di anestesisti, pediatri e radiologi. Nei limiti del possibile, ci capita persino di andare in aiuto di altre Usl, con qualche prestito temporaneo di personale per tamponare le criticità più forti. Verona è stata la prima ad assumere anestesisti specializzandi che frequentano il quinto o il quarto anno di Medicina.
Mancano anche gli infermieri.
Da tre anni il loro numero è pressoché stabile: 2.033. Abbiamo appena bandito un concorso che ha raccolto ben 8.124 domande da tutta Italia. In 4.726 si sono presentati alla preselezione e in 2.802 alla prova scritta e pratica. Gli ammessi all’orale sono stati 1.978. Adesso abbiamo 1.552 infermieri in graduatoria, dei quali circa 150 già assunti. Altri seguiranno a breve, a mano a mano che maturano i pensionamenti.
Ma lei è mai stato ricoverato in ospedale?
Sì, a 5 anni, all’Ospedale al Mare del Lido, oggi chiuso, per la frattura di una tibia. E poi a 11, per un’appendicite, al Policlinico San Marco di Mestre. Nel 1994 a San Donà di Piave per un’artroscopia al menisco. Fine delle disgrazie. Mi reputo fortunato.
Non ha l’impressione che lo Stato sprechi soldi per tante cose inutili e stringa i cordoni della borsa per la sanità pubblica?
Ne ho un’altra: che si faccia poco per favorire il lavoro, per esempio riducendo le tasse sulle imprese e sui dipendenti. Tutto il resto viene di conseguenza.
Il miglior ministro della Salute che abbiamo avuto?
Parlando per esperienza personale? Mi sono trovato molto bene con Girolamo Sirchia e Ferruccio Fazio. Due medici. Certamente sapevano di che cosa parlavano.
L’Arena