il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2019
L’ultimo volo di Pinelli
“L’ultima persona a cui pensavo potesse accadere una cosa simile era lui”. Bruno Manghi, storico sindacalista della Cisl, Giuseppe Pinelli lo conosceva bene. Fu lui a recuperare il motorino con cui Pino seguì la macchina del commissario Luigi Calabresi per andare in questura in via Fatebenefratelli, a Milano, la sera del 12 dicembre 1969, poche ore dopo la bomba di piazza Fontana. Seguì la macchina perché Pinelli e Calabresi si conoscevano, ma in quel momento non potevano immaginare che i loro nomi si sarebbero legati indissolubilmente per i decenni a venire.
Pinelli parcheggiò il motorino, salì in questura entrando dalla porta e ne uscì tre giorni dopo (nella notte tra il 15 e il 16 dicembre) volando dalla finestra della stanza del commissario Calabresi durante un interrogatorio. Una storia maledettamente nota, ma mai del tutto chiarita. Giuseppe Pinelli, ferroviere, ex partigiano, fiero anarchico animatore del circolo milanese “Ponte della Ghisolfa”, fu fermato la notte del 12 dicembre insieme a decine di altri anarchici.
La macchina del depistaggio – oggi si può dirlo senza timore di essere smentiti – si era già messa in moto per addossare ad altri le colpe di una strage fascista. Pinelli – figura carismatica dell’anarchismo milanese, noto anche per il suo credo non violento – era forse la vittima predestinata di quella prima grande macchinazione. Sappiamo che nella stanza dalla cui finestra precipitò Pinelli erano presenti (almeno) quattro agenti di polizia e un ufficiale dei carabinieri (non il commissario Calabresi, che risulta uscito dalla stanza per informare dell’interrogatorio i suoi superiori).
Furono tutti assolti nei due processi che seguirono alla morte di Pinelli. Il primo, istruito nel 1970 dal giudice Antonio Amati, si concluse con un archiviazione: suicidio. Il secondo – a seguito di una denuncia per omicidio volontario da parte di Licia Pinelli e dell’avvocato Carlo Smuraglia – istruito dal giudice Gerardo D’Ambrosio nel 1975, finì con una nuova archiviazione e con la formula, che tanto avrebbe fatto discutere nei decenni successivi, del “malore attivo”. In mezzo ci fu anche il processo per diffamazione contro il giornale Lotta Continua intentato da Luigi Calabresi, che sarà ucciso a Milano il 17 maggio 1972 per mano – sostiene una sentenza definitiva – di Antonio Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, ai vertici dell’organizzazione Lotta Continua.
In tutti e tre i procedimenti furono chiamati a testimoniare i cinque agenti ufficialmente presenti quella notte in quella stanza. Cambiarono più volte versione, talvolta in modo grottesco. Mai si seppe che cosa davvero accadde. Si saprà mai?
Testimoni in vita non esistono più, ma la recente possibilità di accedere con meno restrizioni agli archivi e la desecretazione di molti atti ha consentito di dare nuovo impulso a storici e giornalisti. Pinelli, l’innocente che cadde giù di Paolo Brogi (Castelvecchi editore) è l’ultimo libro uscito sul tema. Approfondisce e sviluppa gli elementi scoperti da Enrico Maltini e Gabriele Fuga, autori di Pinelli. La finestra è ancora aperta (Colibrì edizioni, 2016), che grazie gli atti digitalizzati dalla Casa della Memoria di Brescia hanno potuto appurare la presenza all’interno della questura di Milano, la notte in cui morì Pinelli, di elementi di spicco dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, di cui all’epoca non si parlò.
L’unica certezza è che Giuseppe Pinelli fu una vittima. E non solo. Come dice Bruno Manghi fu “l’ultima persona cui poteva accadere una cosa simile”. Anche per questo a pagare le conseguenze di questa tragedia criminale è stata l’Italia intera negli anni seguenti