La Stampa, 9 dicembre 2019
Sul giornalismo in realtà virtuale
Centoventitré anni fa, il New York Times ha pubblicato le prime fotografie sul giornale di carta. Nel 2015 ha prodotto il primo esempio di giornalismo a realtà virtuale, utilizzando una tecnologia fino a quel momento usata prevalentemente per i videogiochi e da allora diventata uno dei terreni di maggiore sperimentazione editoriale, fino al Pulitzer assegnato nel 2018 all’Arizona Republic e a Usa Today per l’explanatory reporting sul muro al confine tra gli Stati Uniti e il Messico.
Il quotidiano di New York ha un canale di video a 360 gradi, un’app di virtual reality, una squadra che usa la realtà aumentata per produrre reportage immersivi, un team che tiene corsi su questo nuovo modo di fare giornalismo alla School of The New York Times insieme con il T Brand Studio, l’agenzia creativa interna, e per fornire contenuti educativi alle scuole medie.
Lo spatial journalism, il giornalismo volumetrico, è ancora ai primi stadi, ma offre grandi opportunità di sviluppo e di racconto su cui stanno investendo anche il Washington Post, il Wall Street Journal, il Guardian, l’Economist e i grandi network televisivi perché riesce a coinvolgere virtualmente lo spettatore nella notizia in un modo ineguagliabile per i tradizionali metodi di racconto giornalistico. Il giornalismo immersivo, nella definizione data nel 2010 da chi ne ha parlato per primo, è «la produzione di notizie in una forma in cui le persone possono vivere esperienze in prima persona di situazioni o di eventi raccontati nei servizi giornalistici».
È ancora un settore piccolo e improduttivo, ma nell’era della necessarie riduzioni dei tradizionali costi redazionali, la realtà virtuale apre scenari di nuove forme narrative, di trasformazione dei mass media in organizzazioni che non subiscono ma sfruttano la rivoluzione digitale, ma anche di inediti modelli di business capaci di ribaltare gli anni bui.
Già adesso droni, realtà virtuale, realtà aumentata e 3D sono usati per coprire giornalisticamente gli eventi, nella direzione di dare al consumatore di notizie un maggiore senso di spazio e un posto in prima fila su tutto quello che succede, dalle partite di calcio ai fatti di cronaca. Ma quando la tecnologia 5G sarà disponibile a tutti, la capacità di queste reti veloci di trasmettere una quantità fantasmagorica di dati in un tempo rapidissimo consentirà ai giornalisti sul campo di far provare agli utenti esattamente la stessa esperienza reale, e in diretta, che stanno vivendo loro stessi, come se i consumatori della notizia fossero con loro e in tempo reale sul luogo dove accadono i fatti.
La fotogrammetrica che analizza le immagini e costruisce i point cloud della posizione geografica con elementi catturati dalle foto, se potenziata con dispositivi indossabili di nuova generazione e dal 5G, apre canovacci apparentemente distopici ma a realistica portata di mano: un turista che camminando per le strade del Village entra in uno Starbucks che negli anni Sessanta era un locale dove Bob Dylan ha fatto la gavetta potrebbe vivere, via contenuto informativo prodotto dal New York Times o da altri editori, l’esperienza immersiva di un concerto di Dylan giovanissimo esattamente nello spazio dove il cantautore suonava cinquant’anni prima, consentendo allo stesso tempo agli amici del consumatore di Frappuccino di fare la stessa esperienza ovunque essi si trovino. È solo un esempio di infinte applicazioni della tecnologia VR a disposizione di chi per mestiere produce contenuti, riporta notizie e crea storytelling.
Prepararsi al futuro, però, vuol dire anche cominciare a ragionare sui possibili pericoli che la diffusione di queste tecnologie avrà sulla società, per evitare di farsi trovare impreparati come è accaduto con i social network. Far vivere un’esperienza di realtà virtuale al consumatore di notizie può causare un ulteriore indebolimento dei corpi intermedi e una disintermediazione ancora più impattante dello streaming, perché può psicologicamente convincere i consumatori di notizie di essere diventati parte integrante della notizia, col rischio di rendere superflua la mediazione giornalistica e il ruolo pubblico di chi professionalmente è addestrato per raccontare, analizzare e commentare le cose che succedono. C’è anche il tema della realtà virtuale applicata alla produzione e alla diffusione di fake news, già intuibile adesso attraverso i primi esempi di deep fake, la tecnologia che consente la sostituzione digitale dei volti. Anche per affrontare tutto questo, non solo per lo sviluppo del business, le aziende editoriali contemporanee devono investire sulle nuove tecnologie. I giornali, del resto, sono anche un impegno civile di chi li fa e uno strumento della società per la costruzione di un dibattito pubblico adulto.