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 2019  dicembre 09 Lunedì calendario

Studenti in classe col cellulare

Nelle scuole dilaga l’allarme per «l’uso improprio» dei telefonini in classe. Sono trascorsi dodici anni da quando una circolare del ministero della pubblica istruzione ha formalmente vietato i cellulari a scuola durante le ore di lezione, ma da allora la situazione è progressivamente finita fuori controllo tra atti di bullismo prima ripresi con gli smartphone poi condivisi sui social network e studenti sorpresi a copiare i compiti in classe da telefonini e tablet. Insomma, una valanga di incidenti di percorso «digitali» e utilizzi impropri delle nuove tecnologie.
Un’indagine del Laboratorio Adolescenza di Milano ha rilevato che la quasi totalità degli studenti italiani (98,8%) sono contrari al divieto di portare il cellulare a scuola e solo il 20% ritiene più giusto spegnerlo in classe. Per tutti gli altri basta che venga silenziato. Lo smartphone solo per una minoranza di allievi è utile ad apprendere.
A usare il telefonino per scopi didattici «spesso» sono il 29,4% e almeno «qualche volta» il 47,1%, ma, nonostante sia vietato, i numeri (riportati nella tabella qui accanto) raccontano una realtà opposta e descrivono l’abuso sistematico delle nuove tecnologie tra i giovani. E cioè: l’84% dei preadolescenti ha un profilo social, ma naturalmente al momento dell’iscrizione nessuno ha indicato la sua vera età, neppure chi l’ha fatto con un genitore presente. Internet per i ragazzi è un mondo a parte: il 91% non parla con i familiari di ciò che vede o dice durante la navigazione, eppure la vita degli studenti è fortemente influenzata dai messaggi che arrivano dai social, tanto che il 60% clicca addirittura sulle pubblicità e 8 su 10 rispondono ai sondaggi virtuali fornendo così dati fondamentali per campagne pubblicitarie mirate. In Italia la profilazione dei minori è vietata fino ai 14 anni, ma è divenuta una prassi. L’uso incontrollato del web è ormai un allarme che riguarda non solo il comportamento degli studenti ma anche dei professori. Nei giorni scorsi a ritrovarsi nei guai è stato Emanuele Castrucci, docente di Filosofia del diritto all’ateneo di Siena. Finito sotto accusa a causa dei tweet filo-nazisti per cui ora rischia di essere licenziato, il professore si è difeso facendo appello alla «libertà di pensiero» e parlando di «opinioni personali», espresse «fuori dall’attività di insegnamento». Eppure, nonostante la frequentazione quotidiana e soesso ossessiva delle piazze virtuali abbia indotto molti a credere che il web sia una “zona franca”, il suo caso ci ricorda, al contrario, che le regole da rispettare ci sono.
Ogni diritto ha un limite
«Non c’è diritto anche costituzionalmente rilevante che non abbia limiti» ricorda Vito Tenore, consigliere della Corte dei Conti e docente di Diritto del lavoro pubblico nella Scuola nazionale dell’Amministrazione, che cita Umberto Eco: «I social media hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar» e «ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel». «Il tema è antico – ricorda Tenore – e se la libertà di pensiero è scolpita dall’articolo 21 della Costituzione, i limiti sono dati da altri diritti speculari: onore, reputazione, riservatezza, segreti come quello istruttorio o bancario». Oltre che da educazione e buon senso, questi limiti «sono fissati per tutti i cittadini dal codice penale e dal codice civile. Per certe categorie (giornalisti, magistrati, architetti o notai, militari, forze dell’ordine) sono stabiliti anche in codici deontologici, o, per alcuni dipendenti pubblici e privati, nei contratti collettivi di lavoro. Anche condotte extra-lavorative possono avere rilevanza disciplinare» perché «ledono l’immagine del datore di lavoro o del decoro e della dignità del dipendente stesso», provocando la perdita del vincolo di fiducia. Dal 2013, per chi lavora nella pubblica amministrazione, esiste un codice di comportamento che impone maggiore attenzione nelle esternazioni social.
Il monito del Capo dello Stato
A chiedere maggiore sobrietà anche ai magistrati, nell’aprile scorso, è stato lo stesso presidente Sergio Mattarella. Passando dalla chiacchiera da bar a Facebook o Twitter, insomma, si è realizzato il passaggio dal gruppo degli amici a un «numero indeterminato» e potenzialmente enorme di persone, come ha confermato la Cassazione il 27 aprile 2018 con la sentenza sul post denigratorio pubblicato da una lavoratrice che su Facebook si era scagliata contro la sua azienda: «Mi sono rotta i c... di questo posto di m..» aveva scritto. Ma lo sfogo le era costato il posto.
I social, ha ribadito la Corte il 12 novembre dello scorso anno, devono essere considerati luoghi pubblici, e non serve “privatizzare” il profilo rendendolo visibile a un gruppo ristretto di persone, perché può comunque essere rilanciato da ciascuno dei contatti dell’utente. I rischi, per chi eccede, sono annidati ovunque: anche i messaggi di Whatsapp o la chat su Skype possono diventare prove documentali. A finire talvolta nella trappola dei social sono anche esponenti delle forze dell’ordine. C’è il poliziotto sospeso per avere usato i dati raccolti durante una denuncia per contattare una donna su Facebook, e il militare incappato nella sanzione disciplinare per avere pubblicato su Fb le foto di un servizio svolto durante l’Expo di Milano con le tende da campo allagate e commenti negativi per sottolineare le condizioni precarie in cui si trovava coi commilitoni. Con una circolare del 2011, l’Arma dei Carabinieri ha chiesto così «un utilizzo prudente del web». Provvedimenti analoghi hanno assunto l’Amministrazione penitenziaria e la Guardia di Finanza. «Un controllo di tutto ciò che postiamo è impossibile e non esiste un ordinamento che possa prevedere tutto in modo capillare – evidenzia Tenore –. Credo che sarebbe utile definire un “galateo dei social” mettendo attorno al tavolo soggetti come Google, Facebook, il Miur, l’Anac, linguisti e comunicatori».
Commenta Antonello Soro, presidente dell’Autorità Garante della Privacy: «La tensione, per certi versi inevitabile, tra libertà di espressione e diritti che confliggono deve essere composta secondo la gerarchia di valori espressa dalla Costituzione e dal diritto europeo. La libertà di espressione è “pietra angolare della democrazia”, ma poiché nessuno diritto “è tiranno” anch’essa deve soggiacere ai limiti necessari alla tutela di altri diritti fondamentali. Diritti che, on-line, devono godere delle stesse garanzie accordate off-line». Per Soro «il ruolo centrale assunto dalle piattaforme le carica di un potere cui non corrisponde uno statuto giuridico ancora del tutto adeguato in termini di responsabilità». In questo senso, afferma Soro, «si potrebbero promuovere misure che limitino non tanto la libertà di espressione quanto l’amplificazione». E se le grandi piattaforme hanno cominciato a intervenire «per evitare la propagazione di post spesso fortemente lesivi della dignità, aggiunge Soro, «le decisioni di ultima istanza sulla composizione tra diritti fondamentali devono restare di competenza dell’autorità pubblica. E con procedure rapide». Reati di opinione, illeciti contro l’onore, sono «quanto di più complesso e divisivo esista nell’ordinamento: possiamo davvero pensare che decidano sole e con effetto irrevocabile le piattaforme, con una sorta di giurisdizione privata?».
Servono nuove regole
Dice Bruno Saetta, avvocato e blogger, esperto di diritto applicato alle nuove tecnologie: «Una regolamentazione serve, perché il fenomeno si sta espandendo in modo preoccupante. Ma il problema è: che tipo di regolamentazione? Perché hate speech (discorsi d’odio) e fake news (notizie false) sono connaturati alla società, non nascono nei social. Limitarsi a rimuoverli è come nascondere la polvere sotto il tappeto, non risolve il problema, in più quando si parla di hate speech e di fake non c’è una definizione a livello internazionale: ma se non partiamo da una adeguata comprensione delle dinamiche qualsiasi regolamentazione rischia di fallire».
Forse è a uno psichiatra come Federico Tonioni, responsabile del Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web alla Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, che si può chiedere perché sui social oltrepassiamo così spesso i limiti: «Perché i corpi non sono a portata di contatto fisico, e i corpi quando sono vicini contengono gli istinti. La persona si esprime da una distanza di sicurezza e si contiene meno, come quando ci si arrabbia al telefono e lo si fa in modo più veemente. Il meccanismo è lo stesso del cyberbullismo: sono situazioni in cui è più facile non prendersi del tutto la responsabilità di quello che si dice e si dà voce anche a pensieri discutibili. Chi scrive è disinibito ma consapevole e forse, com’è possibile quando c’è tanto pubblico, è alimentato anche da un certo narcisismo». —
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