Corriere della Sera, 9 dicembre 2019
Una nuova biografia di Caracalla
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Alla morte dell’imperatore Commodo (192 d.C.), il figlio di Marco Aurelio ucciso in una congiura ordita dal prefetto del pretorio Quinto Emilio Leto, seguì un anno, il 193, di guerra civile. Il senatore Elvio Pertinace, nominato successore di Commodo, restò al potere ottantasette giorni prima di essere travolto (e ammazzato) da una nuova cospirazione dei pretoriani guidata sempre da Leto. Poi fu un prolungato scontro, al termine del quale prevalse Settimio Severo iniziatore della dinastia severiana. Settimio Severo dovette infine scontrarsi per altri quattro anni, fino al 197, con i suoi rivali. Dopodiché regnò fino al 211, quando morì all’età di sessantacinque anni.Suo successore è il figlio Caracalla al quale è dedicato un grande libro di Alessandro Galimberti pubblicato dalla casa editrice Salerno. Il nuovo imperatore resterà sul trono appena sei anni, alla fine dei quali, nel 217, verrà ucciso (a trent’anni non ancora compiuti) dall’ennesimo complotto dei pretoriani, capeggiato, stavolta, dal prefetto Opellio Macrino. Il suo, scrive Galimberti, è «un temperamento sanguigno e poco incline al compromesso»; «avido di potere e per questo animato da profondo odio» nei confronti del prefetto del pretorio Plauziano, che manda a morte già nel 205 imputandogli di aver cospirato contro Settimio Severo, condannandolo per di più alla damnatio memoriae. I due figli di Plauziano (una, Fulvia Plautilla, era stata moglie dello stesso Caracalla) verranno esiliati sull’isola di Lipari e nel 211, appena asceso al trono, il nuovo imperatore ne ordina l’uccisione. Subito dopo Caracalla fa ammazzare il fratello Geta e giustifica l’assassinio facendo trapelare la notizia che l’ucciso avrebbe complottato contro di lui.
Mentre è impegnato in questi conflitti, l’imperatore progetta una delle iniziative più rilevanti del III secolo: nel 212 promulga la Constitutio che concede la cittadinanza romana a (quasi) tutti gli abitanti dell’impero. Galimberti si domanda come mai la Constitutio non abbia avuto immediatamente adeguata risonanza e «pur essendosi verificato un cambiamento sostanziale, non fu subito percepita nella sua carica innovatrice».
In primo luogo – è la risposta dell’autore – perché «non andava a ledere più di tanto le abitudini consolidate». In secondo luogo perché l’editto conteneva un’eccezione affiancata da una «clausola di salvaguardia». L’eccezione era per coloro che erano stati sconfitti da Roma e si erano arresi incondizionatamente secondo il rituale della deditio. Tale rituale prevedeva che i vinti consegnassero se stessi, le loro proprietà, i loro territori e le loro leggi nelle mani di Roma e giurassero «totale» fedeltà a Roma stessa, riconoscendo cioè che si erano «spogliati di ciò che prima costituiva la loro identità». La clausola di salvaguardia era racchiusa nelle parole ben scandite «restando salvo il diritto delle comunità cittadine», con le quali Caracalla «lasciava sussistere strutture e aggregazioni preesistenti, assicurando la sopravvivenza dei diritti locali».
Lo storico antico Cassio Dione ha messo in risalto polemicamente che uno degli effetti del varo della Constitutio fu l’allargamento della platea dei contribuenti ai quali attingere in virtù dell’imposta di successione (che Caracalla peraltro aveva raddoppiato: dal 5 al 10 per cento del valore dell’eredità). Per aggirare il fisco e mantenere intatto il patrimonio, i Romani avevano escogitato la pratica del matrimonio tra fratelli e sorelle proibito da specifiche norme (ma di fatto tollerato almeno fino al 212, addirittura fino al 295, quando Diocleziano e Massimiano rinnovarono il divieto imponendo specifiche sanzioni). In questo contesto si colloca l’addebito mosso a Caracalla di essersi unito in matrimonio con la madre (o matrigna) Giulia Domna: il sottinteso dell’accusa era ad ogni evidenza che l’imperatore si fosse trovato, per via di quelle nozze «proibite», nell’impossibilità di opporsi al matrimonio incestuoso tra consanguinei che consentiva di eludere l’imposta di successione. Sicché la Constitutio sarebbe stata, secondo Cassio Dione, un modo per allargare la platea dei contribuenti e rimpinguare le casse di Roma dissanguate dagli aggiramenti fiscali resi possibili dai matrimoni tra fratelli.
Ma non può essere stato solo questo a far sì che a Caracalla non fosse riconosciuta quella rivoluzionaria estensione del «diritto di cittadinanza». Erodiano, contemporaneo di Dione, addirittura non fa parola della Constitutio. Impossibile che non la conoscesse. È da supporre invece che quella di Erodiano sia stata una scelta deliberata per poter dare un ritratto completamente negativo di Caracalla. Erodiano avrebbe «intenzionalmente ignorato il provvedimento che più di ogni altro avrebbe accreditato la civilitas dell’imperatore», il quale, secondo lo storico, doveva essere ricordato invece come un tiranno caratterizzato da «irascibilità, sanguinarietà e disumanità».
Peggio di lui fece, dopo la metà del IV secolo, Aurelio Vittore, autore del Libro dei Cesari — storia degli imperatori dalla morte di Augusto nel 14 al regno di Costanzo II (337-361) —, che assegnò addirittura a un altro, Marco Aurelio, il merito di aver esteso la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero. Colpisce, scrive Galimberti, «che un autore come Vittore, africano come i Severi, ignorasse la paternità della Constitutio». Come si spiega? Il fatto è «che la fama di Caracalla mentre era ancora in vita», sottolinea Galimberti, «non era delle migliori, perché già la tradizione contemporanea di matrice senatoria, non tollerava affatto la politica del sovrano». Aurelio Vittore, inoltre, aveva fatto carriera ai tempi di Giuliano l’Apostata (361-363), dal quale aveva ricevuto il governatorato della Pannonia. Quel Giuliano che in una sua celebre opera, i Caesares, aveva condannato duramente Caracalla per l’uccisione di Geta indicando in Marco Aurelio il migliore imperatore della storia romana. Era dunque impensabile «che il bruto e incivile Caracalla avesse potuto varare un provvedimento così civile come la Constitutio». Molto meglio «attribuirla alla saggezza e alla lungimiranza dell’imperatore filosofo Marco Aurelio sensibile agli ideali del cosmopolitismo». Anche nel V e nel VI secolo, prima Giovanni Crisostomo e poi la cancelleria di Giustiniano attribuirono la Constitutio ora ad Adriano ora ad Antonino Pio, vale a dire, anche in questo caso, a due imperatori appartenenti alla «cosiddetta età dell’oro dell’impero romano».
Si è detto che la Constitutio fosse ispirata ad una «ratio anticristiana», dal momento che i cristiani, pur ricevendo anch’essi la cittadinanza romana, sarebbero stati ricondotti, come recitava la nuova norma, «alle cerimonie religiose in onore degli dèi». In questo modo, ha fatto rilevare Chiara Corbo in Constitutio Antoniniana. Ius Philosophia Religio (D’Auria editore), il provvedimento, obbligando i sudditi dell’impero al culto pagano, «avrebbe reso indirettamente, ma inevitabilmente più semplice identificare coloro che se ne astenevano». Prima di formulare questo genere di ipotesi, però, bisognerebbe, scrive Galimberti, «tener conto della situazione dei cristiani al tempo di Caracalla nonché della natura del cristianesimo, dei suoi rapporti con il potere politico e con le altre religioni nello stesso periodo storico». E tutto ci dice che mai le relazioni tra mondo cristiano e mondo pagano erano state e sarebbero state buone come in quell’epoca. Settimio Severo aveva inaugurato – secondo quel che Marta Sordi ha scritto in Il cristianesimo e Roma (Cappelli) – una stagione di rapporti tra la nuova religione e l’impero ispirati a una «tolleranza sempre più piena e completa» e a «un’intesa totale».
Anche Santo Mazzarino in Il basso impero. Antico, tardoantico, ed era costantiniana (Dedalo) sostiene che il cristianesimo all’inizio del III secolo, soprattutto in Oriente, attraversava una fase di espansione, ma soprattutto di pace. Di pace, sì. E lo ribadisce anche Sulpicio Severo, attivo tra il IV e il V secolo, secondo il quale questa era di serenità durò trentotto anni, dal regno di Settimio Severo, passando per Caracalla fino a Decio, che nel 251 scatenò una terribile persecuzione. Nel complesso, conclude Galimberti, «si può affermare che sotto Caracalla – nonostante il cristianesimo continuasse ad essere una religione illegale, per cui si poteva incorrere nella pena di morte – esso era ampiamente tollerato e praticato senza gravi problemi». Né c’è documento che attesti siano stati i cristiani penalizzati o puniti a causa del provvedimento. Anzi. C’era un aspetto in cui la Constitutio e il cristianesimo, «almeno in linea teorica» precisa Galimberti, «trovavano un ampio terreno comune», ed era nell’ispirazione «universalistica» di entrambi. Caracalla, che è fautore di un impero universale «che congiunga sotto lo scettro dell’imperatore romano Oriente, Occidente e cristianesimo» attraverso «il superamento delle barriere etniche imposto da concetti, ma direi soprattutto da prassi, come la fratellanza e l’uguaglianza, sembra perfettamente al passo coi tempi». Del resto, prosegue Galimberti, «ai cristiani non dispiaceva affatto la possibilità di unificare sul piano religioso le varie identità etniche d’ora in poi “disciolte” dalla medesima cittadinanza, come lo stesso Caracalla aveva dichiarato di voler fare».
Tutto ciò è inserito in una particolare attenzione, da parte di Caracalla, nei confronti della figura di Alessandro Magno. Attenzione che «ebbe senz’altro risvolti al limite del patologico». Beninteso, già da secoli «la cultura romana aveva sviluppato nei confronti del Macedone un atteggiamento ora di rivalità, ora di vera e propria emulazione a uso propagandistico». Scipione l’Africano, Pompeo, Cesare, e molti altri dichiararono di aver preso a modello il figlio di Filippo II. Traiano addirittura mentì allorché, alle foci del Tigri, scrisse al Senato dicendo di essersi spinto «più in là di Alessandro». Caracalla fece di più: «si abbandonò ad una forma sfrenata di emulazione» che si configura come un’«alessandromania»; fece di tutto «per presentarsi come la reincarnazione di Alessandro Magno» e lo stesso Galimberti ammette che «non è facile comprendere le ragioni di questo atteggiamento». Certo non lo fece per seguire le orme del padre, che anzi aveva sigillato la tomba di Alessandro come reazione al culto del condottiero macedone iniziato da Commodo e per timore che divenisse fonte di speculazioni religiose o di pratiche negromantiche.
Secondo Cassio Dione quella di Caracalla nei confronti di Alessandro fu una vera e propria «ossessione». Ossessione rafforzata dalla smania «filologica» rivolta agli oggetti posseduti da Alessandro, alla scelta di armi di antiquariato con le quali equipaggiare la falange cosiddetta macedone. Tutti aspetti che Dione deride con una punta di acidità, diversamente da Erodiano nel quale persiste l’ironia, forse anche il sarcasmo, ma senza alcun livore.
Altro modello di Caracalla fu Annibale, considerato uno dei più grandi generali dell’antichità (e il figlio di Settimio Severo «ambiva, non senza immodestia, a godere della stessa reputazione»). Annibale inoltre era africano e «la sua origine non poteva che suscitare ancor più l’interesse di Caracalla in considerazione della provenienza di suo padre». A queste devozioni, va aggiunta l’ammirazione per Sparta, considerata patria della virtù. Ciò che svela, secondo Galimberti, l’inattualità di un’operazione «che sembra più da addebitare ad un capriccio». Senza contare che «questo sterile passatismo strideva con l’assenza di autentici successi sul piano militare». Ma bisogna riconoscergli una grande intuizione, che fosse giunto il momento di abbandonare la declinante ideologia senatoria (contraria alla concessione della cittadinanza romana al di fuori della penisola italica) a favore di una concezione più proiettata nel futuro.