Corriere della Sera, 9 dicembre 2019
Intervista a Silvio Orlando che dice di aver la sindrome dell’impostore
«Io ho la sindrome dell’impostore. La conosce?».
In che consiste?
«Che, anche se hai successo, pensi che derivi da colpi di fortuna o dall’essere lì al momento giusto, ma che prima o poi ti scopriranno». Silvio Orlando ha 62 anni e il dono di sublimare l’autoflagellazione nell’autoironia. Ha girato 50 tra film e serie tv. Ha vinto una Coppa Volpi, due Nastri d’argento, due David e molti altri premi. Ha incarnato tanti personaggi in dubbio fra mediocrità ed eroismo che hanno raccontato chi siamo: dall’insegnante idealista della Scuola a quello cinico del Portaborse, dal giornalista di sinistra di F erie d’agosto allo strozzino sentimentale di Luce dei miei occhi fino al disilluso produttore del Caimano di Nanni Moretti, col quale ha girato otto film, avendo con lui, dice, «un rapporto sadomaso: ne sono stato il martire volontario». Ora in oltre 200 Paesi lo conoscono come il cardinale Voiello del celebrato The Young Pope di Paolo Sorrentino mentre The New Pope, in onda su Sky Atlantic dal 10 gennaio, è già stato venduto in più di cento Paesi. Gli snoccioli i numeri e lui si ritrae: «Non voglio saperli: la dimensione mi spaventa. Quando mi ferma un greco, un lituano, penso che ormai rischio di essere smascherato nei posti più inattesi». Silvio Orlando si racconta mentre è in teatro con Si nota all’imbrunire, una commedia su vecchiaia e solitudine. L’ha allestita con la compagnia fondata con la moglie Maria Laura Rondanini in onore di un’idea, «quella che sono io che mi autodetermino e non devo aspettare che qualcuno mi chiami».
Dunque, quando e come si verifica la sindrome dell’impostore?
«Quando leggo dieci che parlano bene di me, poi, l’undicesimo neanche parla male, ma così così, eppure, penso che è l’unico sincero».
Basterebbe non leggere le recensioni.
«Al contrario. Su Voiello c’era unanimità di consenso, ma io cerco, cerco finché non trovo il cinquantesimo che parla male».
Perché lo fa?
«Da ragazzo, ero insicuro, poi sono cresciuto ed ero insicuro e ora lo sono più che agli inizi. Ho l’ansia di piacere a tutti, cosa impossibile. Penso sempre che gli altri hanno più risultati di me e provo una sana o insana invidia».
Invidia per cosa?
«Se, come me, hai fatto tanto il protagonista e poi vedi un altro che lo fa al posto tuo, la senti come una cattiveria».
Quando le è successo?
«Ho avuto dieci anni in cui sembrava che il cinema non potesse fare a meno di me, dopodiché, fa a meno di me. Ti chiedi: com’è possibile? Eppure, sai che è normale, dipende da cosa il cinema racconta, dall’età che hai. Ora sto invecchiando, entro in una fascia buona».
Perché Sorrentino ha chiamato lei?
«Non mi ha chiamato lui. Prima, aveva fatto dieci film, aveva chiamato tutti, anche mia moglie, e a me mai. Uno si fa delle domande. Stavolta, mi ha cercato una casting disperata che non trovava il cardinale. Sa? La mia generazione fa a pugni con l’inglese. Anch’io sono nato in un giorno diverso dall’inglese, però accetto il provino e loro mi mandano una scena di 13 pagine. Dico: vi sbagliate, queste sono tre scene. Non mi ero mai reso conto di quanto fossero lunghe le scene di Paolo. Mi sono messo a studiare facendo fuori una lunga serie di coach. Una beffa, dato che il Vaticano è l’unico luogo dove per fare carriera devi parlare italiano. Poi, Paolo mi ha visto e ha detto subito sì».
Com’è andata fra lei e il «nuovo Papa» John Malkovich?
«Per una distrazione, non me l’hanno presentato. Provavo una scena e l’ho visto arrivare, come sfumando dalla nebbia, elegantissimo, meraviglioso. Me lo sono trovato di fronte. Abbiamo iniziato a recitare, lui con la sua voce ipnotizzante, io povero e piccolo nel mio saio. Dopodiché, è stato il primo anglosassone di cui sono diventato quasi amico».
Jude Law non è un «quasi amico»?
«Jude è anche un ragazzo semplice, gli piace il calcio, ma resta una divinità».
Che regista è Sorrentino?
«È gentile, premuroso, poi viene posseduto dal suo dark side: ha in testa un film già fatto che tu devi rifare e puoi solo rovinare. Allora, a te viene l’ansia e in lui senti la minaccia di uragano in arrivo. La differenza con Nanni Moretti è che Nanni esplode, tutti si fanno piccoli piccoli e questo fa gruppo. Invece, Paolo sta sempre per esplodere e non esplode mai. Però sai anche che è un’occasione irripetibile e che lui sta chiedendo a sé e a tutti una cosa mai fatta. Lui ti costringe a rompere i tuoi automatismi».
Lei quali ha rotto?
«Mi sarei allargato sul comico, ma lui come indicazione di regia mi ha dato solo una parola per serie. La prima: robotico. Mi voleva inespressivo, senza intonazione. La seconda: ieratico. Ho dovuto controllare l’enciclopedia».
Di suo, cosa sapeva dei preti?
«Vivo a Roma in un complesso del ‘700 in cui c’è un seminario inglese. E, ogni giorno, come elemento più forte dell’essere umano che si fa prete, sento la solitudine».
La moglie
Io sento fortissimo il richiamo della solitudine. Per fortuna ho una moglie che mi tutela, è il mio cane da guardia, mi costringe a non fare cretinate
Di solitudine tratta ora anche in teatro.
«È una specie di epidemia. C’è una tendenza a chiudersi fino all’isolamento totale, specie nell’adolescenza e nella vecchiaia, negli anni in cui hai più paura di affrontare le sfide o in cui, se puoi, le sfide le eviti. La depressione è una risposta anche politica: non esistono più le masse, gli studenti, gli operai, ma solo individui che si sentono irrilevanti e, da soli, sono meno attrezzati per sopravvivere».
Lei la solitudine la cerca o la fugge?
«Io sento fortissimo il richiamo verso il buco nero. La maschera del mestiere mi costringe a essere sociale, ma sono perennemente sotto attacco. Per fortuna, ho una moglie che mi tutela, mi pedina, è il mio cane da guardia, mi costringe a non fare cretinate».
Tipo chiudersi in casa?
«È il desiderio. Poi, magari mi annoierei. Tendenzialmente, con l’età, è come se mi restasse sempre solo la coda amara delle cose. Ma ormai uno psicanalista non mi accetterebbe: mi chiederebbe dove sono stato finora».
Che «cane da guardia» è sua moglie?
«Mi ha messo davanti allo specchio e costretto a fare i conti con quello che sono, non con quello che vorrei essere. Mi ha fatto vedere l’elemento commovente della normalità, la commozione delle piccole cose, continua, reciproca. È come se illuminasse cose che mi sembravano grigie che sono la vita quotidiana. Questo mi ha consentito di ritrovare il senso».
State insieme da 20 anni, sposati da 11, come vi siete trovati?
«Come dico sbaglio... Avevo ideato una formula che mi sembrava bella, dicevo: non l’ho trovata, mi è stata data. Ma lei se l’è presa, mi fa: vabbuo’ vuoi dire che ti so’ capitata? Maria Laura è napoletana come me. Quando torni a casa, in fondo, torni sempre nella casa dove sei nato, dove si può scherzare in dialetto, capirsi al volo, litigare nella stessa lingua».
Lei che bambino è stato?
«Ho perso mia madre a nove anni. Dopo, ha contato la mancanza, ma, prima, la malattia. Lunga tre anni. Quando mi interrogo su cosa ha fatto di me l’attore che sono, devo rispondermi che è stato solo quello. Quei tre anni. Se chiudo gli occhi, vedo ancora la decadenza del corpo, l’essere solo male che ti rende spietato. Da lì, l’idea che il peggio che può succedere è niente, se non uno spunto per ribaltamenti comici. Avere un padre simpatico mi ha aiutato: quando il prete dava a mamma l’estrema unzione, mi ha fatto una faccia buffa delle sue».
Sorrentino ha perso i genitori presto e così Jude Law. Essere orfani che cifra narrativa è?
«Una cosa che ti definisce come uomo. Anche il nuovo Papa ha un rapporto agghiacciante coi genitori. Nella serie, c’è il tema di come fai il padre del mondo se non sei stato figlio».
Massimo Gramellini ha appena raccontato in un libro che, da orfano di madre, ha creduto di poter essere solo orfano di figli. Lei figli non ne ha, che percorso ha fatto?
«È il tema dei temi e non lo aprirei».
Ricorda la prima volta sul palco?
«Fu come trovarmi nel mio brodo primordiale. Sentivo che nel pubblico c’era voglia di me, che mi volevano e che, finito lo spettacolo, mi avrebbero voluto ancora».
Nel’85 entrò nella compagnia dell’Elfo a Milano, che periodo fu?
«Quello della faticosa raccolta dei frutti».
Com’era la Milano da bere?
«La vivevo cercando di realizzare lo scopo della vita: divertirmi. Ma da piccolo borghese, la paura era perdere la brocca. A Milano potevi perderla e diventare vittima di Lucignolo».
E lei cercava o evitava Lucignolo?
«Era un lotta e fuggi, lotta e fuggi».
La madre
Ho perso mia madre a 9 anni. Quei suoi tre anni di malattia hanno fatto di me l’attore che sono. Il peggio che può succedere è niente, uno spunto per ribaltamenti comici
Pensa mai a che epitaffio vorrebbe?
«Sconfitto, a volte. Rassegnato mai».