Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  dicembre 08 Domenica calendario

''PRODUCO TUTTO QUELLO CHE MANGIO''. SÌ MA OCCHIO A NON MANGIARE TUTTO QUELLO CHE PRODUCI! - L'INTERVISTA A ZUCCHERO DI ''SETTE'', IN CUI RIVELA IL SEGRETO PER COMBATTERE LA DEPRESSIONE, VIVERE FELICI E SALVARE L'AMBIENTE: AVERE SVARIATI MILIONI DI EURO PER COMPRARE UN VECCHIO MULINO CON MOLTI ETTARI E METTERSI A PRODURRE TUTTO CIÒ CHE SERVE PER NUTRIRSI A KM ZERO: ''ABBIAMO PURE I PESCI. L'UNICA COSA CHE MANCA È…''

Dall’antipasto al dolce. Il menu di casa Fornaciari è tutto a chilometro zero. Giardiniera di barbabietole rosse, zucca piccante sott’olio, frittata al forno con verdure di stagione, uova di quaglia al burro di bufala, la torta d’erbi tipica della zona, penne con pomodorini secchi, formaggi di mucca e capra, prosciutto e salame, pane e focaccia, crostata con marmellata di fichi. E da bere un Chocabeck (omaggio al titolo di un suo album del 2011) rosato.

Tutto quello che passa sulla tavola di Zucchero e della sua famiglia viene dalla casafattoria di Pontremoli. «Non rubo niente, prendo in prestito dalla natura». A “Lunisiana Soul” - un po’ Lunigiana, la regione di confine fra Toscana e Liguria, un po’ Louisiana che con la capitale New Orleans è stata la culla del jazz e del blues - si accede da un cancello su uno stradone anonimo. Passato l’ingresso si è immersi nella natura: viti a sinistra e ulivi a destra.



Le scenografie di un vecchio tour e il mulino Si scende in una vallata verde attraversando un arco sorretto dalle scenografie di un vecchio tour, e si arriva alla casa di famiglia: un mulino restaurato in stile fiabesco e circondato da prati e campi. Uno dei caselli ottagonali per la stagionatura del formaggio è diventato una dépendance, dentro a una serra c’è un autobus americano riadattato con bar e camera da letto. Fra i prati e i campi coltivati ci sono le stalle e i recinti per gli animali: mucche, cavalli, bufali, pecore, capre, maiali, conigli, galline, tacchini, persino i cerbiatti e un laghetto per i pesci d’acqua dolce.

Cani e gatti girano per la casa. L’ultimo arrivato è Otis, in onore del soul man Redding, un pappagallo cinerino che svolazza in salotto mettendo a rischio le centinaia di fogliettini ritagliati su cui Zucchero appunta idee, pensieri e promemoria. In fondo alla proprietà, appoggiata a una piscina di acqua naturale portata dai canali che alimentavano il mulino, c’è la House of blues, lo studio di registrazione dove sono nate le canzoni di D.O.C., l’ultimo album di Zucchero.



Il vero chilometro zero, siamo al limite dell’autarchia... «Non lavoro io nei campi, ma ogni settimana faccio una riunione con i contadini. Abbiamo tutto quello che serve. Frutta e verdura, carne, latte, uova, olio e burro, coltiviamo i cereali per le farine con cui fare pasta e pane, facciamo le conserve, per il vino conferiamo le uve a un produttore... L’unica cosa che compriamo è l’acqua frizzante. In bottiglia di vetro ovviamente. Praticamente non ho la pattumiera per la plastica». Se Zucchero fosse un vino? «Quello che mi piace bere. Non amo i vini barricati o quelli importanti. Preferisco quelli aciduli di queste zone. Vitigni autoctoni dei colli di Luni come il Vermentino nero che vinifico in purezza, il Ciliegiolo, la Pollera nera». Meglio le sue bottiglie o il Chianti di Sting? «Sono competitivo... Lui però non ha l’aceto balsamico: ho ereditato una batteria, le botticelle per l’invecchiamento e una madre che mi dicono risalire al Settecento».

Come è arrivato a “Lunisiana Soul”? «All’inizio degli anni Novanta ho attraversato un periodo di depressione totale dopo la separazione dalla mia prima moglie. Stavo male ovunque fossi. Provai a tornare dai miei a Roncocesi, ma dopo una settimana fuggii. Mio padre non aveva capito che avevo successo. Non ero più quello che suonava nelle balere e mi svegliava alla mattina alle 6 per farmi andare a lavorare nei campi con lui. In una pizzeria incontrai Enrico Ferri, l’ex ministro, che mi offrì un aiuto per trovare casa a Pontremoli di cui era sindaco».

E come andò? «Mi sembrava un posto fuori dal mondo. Lo conoscevo perché papà aveva un negozio di salumi a Carrara e due volte al mese andava da un fornitore a Correggio attraversando il passo della Cisa. Siccome non esisteva l’autostrada, si andava a Pontremoli e da lì si caricava il furgone sul treno per valicare l’Appennino».

Però alla fine ci è venuto a Pontremoli... «Ferri mi affidò a un agente immobiliare, ma non trovavo quello che cercavo. Qualche mese dopo, mentre stavo facendo un giro in moto con la mia Harley, vidi dall’alto questa vallata verde, un mulino diroccato, le pecore al pascolo... mi sembrava l’Irlanda. Mi sdraiai sull’erba ed ebbi la sensazione di esserci sempre stato. Decisi di comprarlo e farlo rinascere. Nel 1993 iniziai i lavori che mi aiutarono a uscire dalla depressione: mi tenevano il cervello occupato. All’inizio ci venivo nei fine settimana e nelle vacanze con mio fratello e le mie figlie. Nel 1998 è nato Blue, il mio terzo figlio, e dal 2000 con la mia compagna Francesca ci siamo trasferiti qui per crescerlo a contatto con la natura».

Che rapporto ha con gli animali? «Ottimo. Quando sono sotto pressione causa mancanza di idee vado nel cucuzzaro, così chiamiamo il cortile dei pennuti, e li osservo. Gli animali hanno gli stessi comportamenti di noi umani...». Il 9 dicembre si esibirà al Rainforest Fund a New York, un concerto benefico a tutela delle foreste pluviali organizzato da Sting in cui si esibiranno anche Bruce Springsteen, Ricky Martin, James Taylor, Eurythmics e altri... È vicino alla causa ambientalista? «Sting è impegnato con questo progetto da anni, mi invitò già nel 1997... ma è importante anche quello che fa una ragazza come Greta Thunberg. Meno male che c’è lei. Non mi interessa sapere se c’è qualcuno dietro di lei. Spero solo che i giovani continuino questa sua rivoluzione pacifica. Faccio lo zio che li spinge a fare casino: se si incavolassero anche un po’ e scendessero in piazza ne avrebbero tutte le ragioni».



Suo figlio ha qualche anno in più di Greta... È servito farlo crescere qui? «Francesca e io facciamo il possibile. A volte la gente si stupisce e ci chiede perché non gli prendiamo la tal macchina o l’ultimo modello di telefono. Ci chiede l’Phone 11 perché i suoi amici ce l’hanno? Noi gli rispondiamo che il 6 funziona ancora benissimo... Dobbiamo fare resistenza davanti alla forza del branco. Certe auto io me le sono permesse a 35-40 anni. Blue ha una 500: non deve ostentare. Comunque parte tutto dalla famiglia: vedo famiglie, anche modeste, che dicono sì a qualsiasi richiesta dei figli. È diseducativo».

Insomma, come dice una canzone di D.O.C. , siamo Vittime del cool ? «Nessuno sembra più voler essere quello che è veramente. È triste. Si punta all’apparenza e non alla sostanza. Vedo i politici pieni di braccialetti, collane, anelli alle 5 dita... Vogliono fare le rockstar...». In quel testo dice anche di non amare più l’essere umano. Siamo messi così male? «Non voglio generalizzare, però non capisco più se i miei parametri di vita siano ancora giusti. Amo le persone genuine, dirette e semplici. Pane al pane, vino al vino. Purtroppo ne vedo sempre meno anche nei paesini come questo. Siamo di fronte a un’epidemia che contamina tutti. Riesco ad avere quel tipo di rapporto con una ventina di persone: alcuni amici del posto, un professore universitario di Genova con cui passo nottate a parlare di letteratura e cultura del territorio...».

E le superstar amiche? «Nella categoria dei genuini ci metto anche Bono, Eric Clapton, Brian May, Sting. Anche Pavarotti era così: una star planetaria che quando tornava a casa giocava a briscola con gli amici».

Nei testi del nuovo album c’è, più spesso che in passato, un elemento spirituale. Sta cambiando idea? «È vero, è come se ci fosse sempre una luce, un inizio di redenzione. Da ateo convinto mi sono ritrovato a parlare di qualcosa di meno terreno. Forse ha a che fare con la maturazione degli anni...».



Ha paura di invecchiare? «Nel 1999, per il video di Diamante mi truccarono da me stesso vecchio. Non mi spaventa il cambiamento nell’aspetto fisico. Mio padre era solido e nerboruto, ha avuto tutti i denti e i capelli sino alla fine: spero di avere lo stesso Dna della Bassa padana. Ho paura invece dell’apatia, del perdere gli stimoli, non avere più sfide, finire a guardare la tv sul divano o ammazzare il tempo al bar e sperare che arrivi sera in fretta».

La gioventù artistica passa? «Quando mi sono trovato davanti al foglio bianco per la scrittura di questo album, ho sentito l’esigenza di un cambiamento repentino e veloce. Ascolto dischi di colleghi che stimo, ma quelle canzoni suonano sempre allo stesso modo: mi sembrano vecchi. Per quest’ultimo lavoro ho pensato che avrei dovuto rimanere me stesso dando però una rinfrescata al guardaroba. Ho cercato di capire perché certi brani e certi suoni hanno successo oggi. E ho invitato produttori e autori giovani che stanno dietro a hit mondiali a mettere dell’elettronica calda nei miei pezzi».

Zucchero prima di essere Zucchero? «Cantavo nelle balere. Facevo il talent scout e provavo a produrre e scrivere anche per altri come Fred Bongusto, Fiordaliso o Stefano Sani perché pensavo che nessuno fosse interessato alla mia voce e al mio genere. Andavo a portare i miei pezzi alla Pdu di Mina perché allora si diceva “se ti prende un pezzo lei, hai svoltato”. Ma niente, non presero nemmeno Diamante, che ancora non aveva il testo di De Gregori». Suo padre torna spesso nelle sue canzoni: come lo ricorda? «Non ci siamo vissuti come avrei voluto... Era un uomo alla vecchia maniera, poche parole e tanto lavoro. La parte artistica della famiglia è la sua. Quando chiudeva il negozio per la pausa, andava sulla spiaggia a prendere i legni levigati dal mare per realizzare delle sculture. Era un uomo ipersensibile, un sognatore travestito da duro».

Che diceva della sua musica? «Ai tempi del successo di Oro, incenso e birra lo intervistarono quelli di TeleReggio. Era nell’orto. Gli chiesero un giudizio sulle mie canzoni e in mezzo dialetto disse più o meno così: “Speriamo che duri. Comunque io preferisco il valzer e la mazurca”. Avrei voluto fosse orgoglioso del mio lavoro». Non lo era? «Non lo manifestava. È venuto a vedermi una volta sola, a Parma nel 1995. Camminava male, erano gli inizi di una malattia degenerativa. Gli chiesi cosa fosse successo e lui rispose: “Un mignolo che mi dà fastidio, al limite lo taglio...”. Ho pensato a quel momento scrivendo Sarebbe questo il mondo. Però mamma diceva che a volte gli vedeva gli occhi lucidi quando si parlava della mia carriera».

E la mamma? «Lei era orgogliosa di me. Mi raccontava sempre di quando la fermavano per strada mentre faceva la spesa per dirle quanto bravo fosse suo figlio...». Dove nasce la sua musica? «In questo studio. Era una stalla per le pecore che ho trasformato con legno e metallo nello stile di una baracca sul Mississippi. Quando entro qui, vengo trasportato nel mondo musicale che amo. Lavoro con Max Marcolini, mio collaboratore storico. Si dice che più fai bottega più ti avvicini all’arte. Quindi si parte alle 11, pausa pranzo e poi si va avanti fino a sera. A volte dormiamo qui, c’è anche la camera da letto».

Questa, quindi, è la sua casa, per la vita e per la musica? «A 10 anni sono stato sradicato da Roncocesi, la frazione di Reggio Emilia dove ero nato. Era il mondo di don Camillo e Peppone. Il prete era soprannominato don Tagliatella e litigava con mio zio Guerra, un maoista convinto. Papà non voleva mai far entrare il prete a benedire casa. Alla domenica però mi mandavano a portargli le uova. Dopo che ci siamo trasferiti non mi sono mai più sentito a casa. Pontremoli mi permette di stare a metà strada fra le mie radici emiliane, mio fratello vive ancora a Reggio, e le figlie che stanno a Carrara». Mai pensato a una fuga all’estero? «Sono a casa poco e non ho tempi morti lunghi in cui annoiarmi. Los Angeles è noiosa: un circolo chiuso, nei locali non si fuma, bevono birra analcolica e il mare è più bello in Italia. Francesca ha studiato a New York e ci vorrebbe tornare, ma non sento la tentazione».

Allora non le resta che stare con la valigia in mano. Cosa non può mancare nei suoi bagagli? «Per l’ultimo tour ho avuto 160 concerti in giro per il mondo in un anno e mezzo. Nel 2020 suonerò in Australia ad aprile, poi da settembre a dicembre circa 30 show in Europa e 12 serate all’Arena di Verona. E l’anno dopo si riparte con Stati Uniti e Canada, Sudamerica, Giappone, Europa dell’Est. Porto sempre con me i fiori di Bach per calmare l’ansia pre-concerto. Shampoo e sapone vengono da casa: non amo quelli degli hotel. Una fan mi ha regalato un sacchetto di sale come talismano scaccia malanni: non che ci creda, ma è lì da 5-6 anni e non lo tolgo...».

CARTA D’IDENTITÀ La vita — Zucchero Fornaciari, pseudonimo di Adelmo Fornaciari, è nato a Roncocesi (frazione del comune di Reggio Emilia) il 25 settembre 1955. Diplomato perito elettronico, si iscrisse alla facoltà di Veterinaria, interrompendo poi gli studi per dedicarsi alla musica. Ha avuto due figlie dalla prima moglie: Irene, cantante, e Alice. Dalla nuova compagna, Francesca Mozer, ha avuto Adelmo Blue Il nuovo tour — In aprile parte il tour mondiale dal Byron Bay festival in Australia. Quindi Zucchero suonerà in Inghilterra durante l’estate, per arrivare in Italia dal 22 settembre al 4 ottobre con 12 concerti all’Arena di Verona. Da ottobre a dicembre sono in cartellone invece le date nel resto dell’Europa