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 2019  dicembre 08 Domenica calendario

Morandi, l’atto di accusa del manager Autostrade

«Ingegner Castellucci, grazie per aver accolto il nostro invito, per averci dato la possibilità di avere informazioni in più, che ci aiutino a capire questa disgraziata vicenda».
È il 13 settembre 2018: la commissione del ministero delle Infrastrutture che indaga sul crollo del Ponte Morandi, che un mese prima ha causato 43 morti, si trova davanti l’amministratore delegato di Autostrade per l’Italia. È la prima volta che Giovanni Castellucci rende un’audizione. E sarà anche l’ultima: come molti altri indagati della società, davanti ai magistrati si avvarrà della facoltà di non rispondere. Ma in quei giorni manager e tecnici non possono sottrarsi alle domande e alle contestazioni degli esperti del ministero.
Sono gli uomini di punta di Autostrade. E parlano senza rete e senza avvocati, forti dei «pieni poteri» e della «totale fiducia» degli azionisti che verrà meno solo 14 mesi dopo, cioè domenica scorsa, quando il patron Luciano Benetton, in una lettera aperta, ha definito il management di Autostrade «non idoneo» e l’organizzazione «non all’altezza», perché «una struttura è fatta di uomini e qualche mela marcia può celarsi dappertutto».
I verbali, acquisiti dalla Procura di Genova e di cui La Stampa può rivelare il contenuto, ricostruiscono la catena di comando di Autostrade. Il parto del progetto mai attuato di ristrutturazione dei tiranti sul Morandi. Le segnalazioni di pericolo, ignorate. Il dispositivo di sicurezza su quello e altri 2000 ponti in tutta Italia. Le ambiguità tra Aspi e l’azienda consorella Spea, cui erano delegate le verifiche di sicurezza. Le reticenze. Lo scaricabarile. Ma anche la voce fuori dal coro di un dirigente di punta della società. Il primo e l’unico a rivelare che le segnalazioni di rischio sui viadotti «per prassi» dovevano essere riferite «anche direttamente ad Autostrade». A definire «assurdi» gli errori nelle schede tecniche. A confermare che i rilievi nella relazione allegata al progetto mai attuato avrebbero meritato «un approfondimento». A riconoscere che per il principale concessionario autostradale del Paese sul fronte della sicurezza «c’è qualcosa che non va». 
"Ta-ta-ta-tà"
Castellucci è sulla difensiva. Misura le parole. Tiene la linea. Dice di non voler «interferire con le indagini». Sostiene di aver saputo dei lavori sul Morandi «solo quando il progetto ci è stato presentato in Consiglio d’amministrazione», definendolo «un piccolo investimento» da 20 milioni. Precisa che la delibera del Cda non rappresenta «un’approvazione del progetto» dal punto di vista tecnico, e così esclude qualsiasi ipotesi di consapevolezza delle più urgenti criticità sul ponte in seguito collassato. Poi racconta, con qualche semplificazione onomatopeica, la seduta che diede l’ok al restyling. «Donferri (Michele, allora supercapo delle manutenzioni, ndr) venne invitato in via straordinaria a illustrare il progetto (...). È un’opera strategica, situata all’inizio dell’autostrada, ne dà un’indicazione generale, ta-ta-ta-tà».
Dati inquietanti
Castellucci nega una particolare «esigenza» di sicurezza per intervenire sul Morandi, sebbene al dossier sulla ristrutturazione fosse allegato qualche dato preoccupante. Definisce il progetto «un intervento preventivo che nasceva da un obiettivo di miglioramento della qualità e della durata di vita» dell’infrastruttura. E in ogni caso, risponde ai commissari che lo incalzano, l’amministratore delegato nulla c’entra perché «il piano delle manutenzioni straordinarie è un qualcosa che potete chiedere a Berti (Paolo, in quel momento direttore centrale operativo, il numero tre dell’azienda ndr). È la sua struttura che lo sviluppa e aggiorna (...) sulla base delle verifiche, dei monitoraggi e nasce da un forte coinvolgimento delle direzioni di tronco, oltre che delle direzioni centrali, e si tende a responsabilizzare molto le strutture nel fare quello che è necessario».
Alla domanda se Autostrade abbia fatto quello che era in suo potere per garantire la tenuta del ponte, Castellucci fa muro: «Ritengo che la domanda sia generica». La commissione lamenta che «questa risposta probabilmente poteva essere accettata due mesi fa, ma ora no» perché il Paese reclama «un’assicurazione in ordine al fatto che avete capito qual è il problema, l’avete rimosso e ora siete tecnicamente certi che non si verificheranno più questi disastri».
«Non sono un tecnico – è la risposta di Castellucci – so solo dire che il Polcevera era un ponte su cui c’erano monitoraggi, i risultati erano noti, erano condivisi e chi aveva fatto monitoraggi non aveva evidenziato elementi di criticità. Il Morandi è un ponte ad hoc, lo potrà confermare anche l’ingegner Berti che non ci sono problematiche analoghe altrove». In ogni caso, «non esiste una strategia che limita gli investimenti».
In realtà le carte in mano alla commissione, e ancor più quelle successivamente raccolte da Procura e Finanza, dimostrano che esistevano sia «elementi di criticità» sul Morandi che «problematiche analoghe» su altri viadotti. E le intercettazioni fanno ipotizzare una strategia di riduzione degli investimenti in sicurezza.
Dunque Castellucci si fa scudo di Berti. Un super-manager con competenze tecniche. Sa tutto lui. Invece, ascoltato lo stesso giorno dalla commissione, Berti inanella una serie di 20 «no», «non so», «non mi risulta», «non ricordo», «non l’ho letto».
La messa in sicurezza dei viadotti è stata vagliata dal Comitato grandi opere? «Che mi risulti no». Sa perché il progetto definitivo di messa in sicurezza del Morandi non è mai stato all’attenzione della direzione generale del ministero? «Non lo so». Ha mai saputo dei deficit strutturali evidenziati dal progetto? «No. A me segnali evidenti di questi deficit non sono mai giunti». Ha mai letto il rapporto di validazione del progetto esecutivo, che conteneva 62 osservazioni? «Non l’ho mai letto». Il Polcevera aveva dei deficit anche sulle travate dall’1 all’8: questa notizia le è mai arrivata? «No». La sua società ha mai prodotto un’analisi di rischio sul viadotto Polcevera? «Non lo so». Lei viene presentato dal Cda come uno dei progettisti: lo conferma? «Assolutamente no». Esiste una struttura che approva i progetti? «Non lo so dire con precisione».
Solo su un punto Berti è assertivo: «Per quanto riguarda il sistema di monitoraggio dei ponti, tutta questa pericolosità io non la percepisco. C’è un sistema molto valido».
La filiera del management che reggeva le sorti di 3000 chilometri di autostrade italiane, per come emerge dalle audizioni, è chiara: Castellucci-Berti-Donferri. Amministratore delegato-direttore operativo-direttore manutenzioni. Tutti indagati a Genova per disastro e omicidio plurimo colposo. Oggi nessuno dei tre fa più parte dell’azienda. Castellucci ha lasciato Autostrade a inizio anno a la Holding Atlantia due mesi fa, con una buonuscita di 13.095.675 euro. Nello stesso periodo Berti e Donferri sono stati formalmente licenziati e l’azienda non ha voluto precisare se a fronte di buonuscite e accordi di riservatezza.
"Andreotti insegna"
Al di là dei verbali della commissione ministeriale, Berti e Donferri non hanno mai rilasciato dichiarazioni pubbliche.
Raccontano qualcosa le intercettazioni. L’11 gennaio 2019 si conclude il processo in primo grado per la strage di Acqualonga (Avellino). Nel luglio 2013, da un viadotto della Napoli-Canosa, anche a causa delle protezioni insufficienti, precipitò un bus di pellegrini: 40 morti. Berti viene condannato insieme ad altri cinque dirigenti e tecnici di Autostrade a 5 anni e mezzo di carcere. Castellucci, per cui la Procura aveva chiesto 10 anni, viene assolto.
Nessuno dall’azienda si fa sentire e Berti, tre giorni dopo la sentenza, telefona a Donferri. Con il suo fedelissimo si sfoga. Chiama in causa Amedeo Gagliardi, direttore legale di Autostrade. «Quello meritava una botta – dice -. Meritava che mi alzassi una mattina e andassi a dire la verità. Così proprio lui lo ammazzavo credimi, era l’unica soddisfazione che avevo». Donferri lo calma: «Devi stare tranquillo perché comportandoti così hai la possibilità di trovare un accordo con questa gente. Che tacciano pure, ma un accordo devi trovarlo. Su questo devi riflettere (...) voglio dire, Andreotti insegna. Se non puoi ammazzare il nemico, te lo fai amico». E in un altro passaggio gli ripete «ora puoi fare l’accordo con il capo». Che, secondo gli inquirenti, sarebbe proprio Castellucci.
L’ultimo anello della catena
Poiché la triade di manager scarica la responsabilità della sicurezza dei viadotti sulle direzioni di tronco, gli esperti del ministero convocano Stefano Marigliani. Capo del nodo genovese quand’è crollato il Morandi, anch’egli indagato, sarà successivamente trasferito a Milano. Alla commissione spiega: «Mi sono insediato nel 2016. Per il tronco di Genova praticamente Autostrade sono io». Ma sul progetto di retrofitting strutturale del Morandi non sa nulla, perché da una parte «il committente è la struttura di manutenzione della direzione generale», dall’altra «il percorso di sorveglianza è affidato dalla mia direzione a Spea», la società del gruppo a cui erano delegate ispezioni e verifiche sulle infrastrutture, estromessa due mesi fa dopo le accuse della Procura sui falsi report. «Le strutture tecniche, come la direzione di tronco, elaborano i dati già forniti e sintetizzati da Spea. La sorveglianza è affidata a Spea ed è il primo soggetto che valuta, interpreta, sintetizza, svolgendo le ispezioni con i mezzi speciali».
Marigliani spiega così il dispositivo di sicurezza: «La prima cosa di cui io prendo visione è un voto assegnato all’opera» e sul Morandi «non ho avuto indicazioni che ci fosse un adempimento incompiuto. In altri casi dove il sistema di voti mi aveva dato evidenze, sono intervenuto: quando mi sono insediato mi hanno detto che i tiranti erano sorvegliati, mai ho avuto un campanello d’allarme».
La commissione si rivolge allora a Massimiliano Giacobbi, direttore tecnico Spea che successivamente, indagato per il crollo del Morandi e nell’inchiesta bis sui falsi report, finirà per un periodo agli arresti domiciliari.
Giacobbi è l’unico che si presenta accompagnato da un avvocato. «La vigilanza e il controllo sul Polcevera li abbiamo fatti noi - spiega - ma non ci compete programmare interventi di manutenzione. Con le ispezioni viene alimentata una banca dati creata da Autostrade. La sintesi ragionata dei report post-ispezioni veniva mandata alla direzione di tronco, dal 2013 al 2015 in copia alla direzione centrale di Roma. Noi compiliamo la scheda, diciamo ad Autostrade: questo è lo stato dell’opera, dopodiché non è compito di Spea e non è nel mandato di Spea dire "devi intervenire o meno" anche sulla chiusura al traffico. Sono tutte costruzioni che fa Autostrade, che ha la sua struttura per valutare. Noi mandiamo tutto ad Autostrade». 
Il cerchio dello scaricabarile sembra chiudersi. Castellucci si scherma con i superdirigenti Berti e Donferri. Berti oppone «non so» e «non ricordo». Donferri si dilunga in tecnicismi. Tutti e tre evidenziano il ruolo cruciale della direzione di tronco, il cui capo dice che in realtà il polso della sicurezza lo aveva Spea. Che, per bocca del direttore tecnico, restituisce il cerino ad Autostrade.
"C’è qualcosa che non va"
Sono strategie difensive già evidenziate nel processo di Avellino, nell’ambito di quella che Castellucci definisce «azienda a rete». Ma il meccanismo si inceppa quando viene chiamato a testimoniare Alberto Selleri, responsabile della direzione realizzazione nuove opere di Autostrade, distaccato a Genova per seguire il progetto della Gronda. Manutenzione e nuove opere sono, nell’azienda, «due silos separati, con due approcci diversi». Non indagato e non coinvolto nel crollo del Morandi, Selleri è un ingegnere di punta della società.
Ha anche lavorato in Spea e smentisce i dirigenti attuali spiegando che quando dopo le verifiche «non tornano i conti», il progettista «normalmente alza la mano e dice c’è qualcosa che non va», risalendo la filiera dal capo dell’ufficio strutture al direttore tecnico «oppure direttamente ad Autostrade. La prassi è questa».
Gli mostrano la scheda di valutazione sismica del Morandi, piena di «errori madornali che sarebbero accettabili su un ponticello su un ruscello» e lui risponde imbarazzato: «Mi sembra assurdo. Non so cosa dire. In effetti qui sembra un ponticello». Gli fanno vedere i coefficienti di sicurezza del progetto, «ottimisticamente sovrastimati», e Selleri non usa giri di parole: «Sulla sicurezza mi sembra che ci sia qualcosa che non funziona. Questa tabella avrebbe meritato un approfondimento».
La commissione chiede a Selleri un ultimo conforto, «perché noi abbiamo un ingrato compito, leggendo queste carte redatte da colleghi. Ci stiamo sbagliando? Non abbiamo capito niente? Siamo tutti impazziti?».
«Alla prima impressione direi di no».