La Stampa, 8 dicembre 2019
Ritratto di David Mamet
In famiglia, prima che avessimo la televisione ci divertivamo a improvvisare violente litigate, basate sulla nostra capacità di usare il linguaggio con furia e cattiveria. Se esiste una mia abilità a riguardo, è nata da lì». David Mamet mi spiegò così la nascita del cosiddetto Mamet Talk, quell’inconfondibile modo di parlare fatto di intelligenza, cinismo, violenza, velocità e battute memorabili come «dì sempre la verità: è la cosa più facile da ricordare», o «Sei solo chiacchiere e distintivo». Poi aggiunse che è la domanda che gli fanno più frequentemente, e che lui dà sempre la stessa risposta, studiando sul volto dell’interlocutore il giudizio silenzioso sulla sua famiglia.
Oggi abita in una bella villa a Santa Monica con la seconda moglie Rebecca Pidgeon e i figli che ha avuto con lei e con Lindsay Crouse, ma ha vissuto a lungo a New York e a Chicago, la città nella quale è nato e cresciuto. Ha un fisico tarchiato e muscoloso, e porta benissimo i settantadue anni che ha compiuto pochi giorni fa: ti dà l’impressione che ogni sua attività, anche quando dirige o scrive, sia in primo luogo fisica. Ama offrire un’immagine spavalda, David, ma anche le battute più provocatorie sono segnate un’ammirevole autoironia: «tough Jew», si definisce, e il modo scherzoso con cui parla dell’orgoglio di appartenenza sottolinea come l’essere ebreo rappresenti un elemento imprescindibile dell’intera esistenza: «Recidere le proprie radici è una cosa davvero terribile» mi ha detto una volta «penso che le persone assimilate finiscano per essere sole». Ha preso ripetutamente posizioni a favore di Israele, ma nulla, specie negli ultimi anni, lo caratterizza come l’essere diventato il profeta e quindi l’apostolo della lotta al politicamente corretto.
Utilizzando rigorosamente una vecchia macchina da scrivere ha vinto un premio Pulitzer per Glengarry Glen Ross e ha ricevuto due candidature agli oscar come sceneggiatore, ma è incredibile che non gli sia stato ancora attribuito un premio cinematografico: i suoi copioni sono usati come testi nelle migliori scuole di cinema e quello del Verdetto è considerato l’esempio perfetto della sceneggiatura in tre atti. Nonostante sia l’autore di alcuni tra i migliori dialoghi della storia del cinema teorizza che «una sceneggiatura veramente riuscita dovrebbe farne a meno».
È dotato di un’ammirevole libertà intellettuale che lo porta a mettere in discussione anche le idee di cui è saldamente convinto: non è un caso che molti suoi testi abbiano come tema il rapporto tra apparenza e realtà, ed è illuminante che tra i protagonisti abbondino imbonitori e truffatori. Molte sue regie, quali La casa dei giochi e Homicide, sono di ottimo livello, e ha realizzato degli spot pubblicitari molto innovativi per la casa automobilistica Ford: ha capito che si può eccellere anche lavorando su committenza, e racconta con disincanto che solo il cinquanta per cento delle sue sceneggiature sono state realizzate, tra le quali una prima stesura del Malcolm X di Spike Lee. Forse la vicenda che racconta meglio il suo rapporto con gli studios è il suo adattamento di Lolita di Nabokov per il film che diresse Adrian Lyne. A tre settimane dalla consegna del copione, preoccupato dal fatto di non ricevere risposte, chiamò il produttore, il quale gli disse: «A leggere la sceneggiatura sembra il protagonista sia un pedofilo!» Oggi ne ride, ma all’epoca ne rimase sconcertato e amareggiato. «Hollywood è come la cocaina» mi spiegò una volta: «Non riesci a capirne l’attrazione finché non la provi. E quando la provi, impazzisci».
In un’altra occasione dichiarò che «Grazie a Dio le persone di Hollywood non hanno l’anima, così non soffrono», ma il rapporto con la fabbrica dei sogni è contraddittorio: «È il capitalismo al suo meglio: forze creative che si contrastano, usando gli strumenti del mercato. È molto più confusa del totalitarismo, ma uccide molta meno gente». Proprio per minimizzare il rapporto con quel mondo David scrive anche per la radio e la televisione, alternando il lavoro alla stesura di romanzi e, soprattutto, saggi memorabili, quali Bambi vs. Godzilla, sul rapporto tra cinema mainstream e indipendente, e The Secret Knowledge: on the dismantling of the American culture, con il quale ha spiegato come la correttezza politica si trasformi in dittatura ideologica. Nello stesso periofo ha scritto sul Village Voice un articolo intitolato «Perché non sono più uno stupido liberal», condannando parallelamente la diffusione delle armi in America: si è fatto un’infinità di nemici sia a sinistra che a destra, e hai l’impressione che ciò ne rafforzi le convinzioni. Del resto è la stessa persona che ha scritto Oleanna, con il quale, nel 1992, ribaltò le prospettive relative alle molestie sessuali, facendo di un professore universitario la vittima di una studentessa: non era provocazione fine a sé stessa, ma la volontà di mettere alla luce ciò che viene ignorato dal conformismo.
Sorprendente anche l’approccio relativo alla recente commedia su Harvey Weinstein, raccontato non tanto come predatore sessuale, ma come il mogul che aveva capito il modo di conquistare, attraverso la corruzione, i Golden Globes e gli Oscar. Ha denunciato con veemenza l’antisemitismo di molta intellighentia europea, e a riguardo, e sono appassionanti The Wicked Son e il commento alla Torah scritto insieme al rabbino Lawrence Kushner. Nulla tuttavia lo fa imbestialire come chi, a suo avviso, specula sull’Olocausto: una delle sue battute più feroci l’ha destinata a Steven Spielberg, che pure ammira. Ha detestato Schindler’s List e, giocando sul celebre standard hollywoodiano There’s no business like the show business ha definito il film: «There’s no business like the Shoah business».
Questo atteggiamento, a volte sprezzante, contrasta con la leggerezza con cui flirta con la moglie Rebecca, un’ottima cantante di origine scozzese che ha voluto come attrice nei i suoi film: una loro gag ricorrente è il feticismo di «Bec» per le scarpe. Ha formato la propria cultura passando ore nella Public Library di Chicago, e dice scherzosamente che la sua Alma Mater è «il terzo piano dell’isolato, dove ho letto di tutto, sotto l’egida di un’insegna pubblicitaria della Coca Cola». Non tutte le sue opere sono di uguale efficacia, ma quando è in forma, come in American Buffalo o Glengarry Glen Ross, scolpisce momenti che rimarranno nella storia dello spettacolo americano: nel monologo aggiunto per la versione cinematografica, Alec Baldwin porta alle estreme conseguenze il cosiddetto discorso motivazionale fatto da un dirigente ai propri dipendenti: «Vedi questo orologio? Lo vedi? Questo orologio costa più della tua macchina. L’anno scorso io ho fatto 970.000 dollari. Tu quanto hai fatto? Questo è quello che sono io. E tu non sei nulla». In mezzo a una lunga serie di altri insulti, tra i quali «falliti», spiega che il primo premio per i dipendenti è «una Cadillac El Dorado, il secondo è un set di coltelli e il terzo è il licenziamento». Era dai tempi di Morte di un commesso viaggiatore che non veniva raccontata con tanta lucidità la spietatezza del capitalismo americano, e a chi gli chiede dove sia nato un personaggio così diabolico, spiega che «alcuni personaggi mi affollano la testa, e sento l’esigenza che smettano di parlarmi».
Discute con piacere dei film che hanno realizzato altri registi, ma non con tutti ha stretto un sodalizio. È diventato amico di Sidney Lumet all’epoca del Verdetto e con Bob Rafelson al tempo del Postino suona sempre due volte, ma non ha legato troppo con Brian De Palma, per cui ha realizzato il magnifico copione degli Intoccabili. Ancora peggiore il rapporto con Ridley Scott di cui ha ripudiato Hannibal: «Avevo scritto una sceneggiatura completamente diversa». Con gli anni ha preteso che i suoi copioni non si potessero cambiare neanche minimamente senza il suo permesso, ed è per questo che predilige sempre più spesso dirigere.
Ormai da anni ama circondarsi soltanto di amici fidati, quali Al Pacino, Joe Mantegna, John Malcovich e in Italia Luca Barbareschi, rigettando ogni tipo di mondanità: «Le chiacchiere delle feste mondane sono il contrario della conversazione, che è un’arte che arricchisce». Fa impressione come un uomo così spavaldo possa essere riservato sulle cose a cui attribuisce maggiore importanza, a cominciare dall’arte e l’osservanza religiosa. Una volta ha spiegato ai colleghi drammaturghi: «Il fine del teatro non è quello di affrontare questioni sociali, ma spirituali… di celebrare i misteri della vita».