Corriere della Sera, 8 dicembre 2019
Intervista a Carlo Castellano, gambizzato nel ’77 dalle Br
Carlo Castellano oggi ha 83 anni. Nel novembre del 1977 un commando delle Br gli sparò alle gambe, ferendolo gravemente. Allora Castellano era un dirigente dell’Ansaldo, uno dei più importanti, e un iscritto al Pci. Due ragioni, agli occhi dei brigatisti, per considerarlo un obiettivo di una delle tante campagne di «annientamento» della loro stupida guerra, quella che, in nome della rivoluzione proletaria, produsse infine il pentapartito. Carlo, che conosco da anni, mi riceve a casa sua, a Genova, con la sua gamba appoggiata a un banchetto. Ha appena subito l’ennesima operazione del calvario impostogli dai terroristi.
Come stai, Carlo?
«È stato un anno terribile perché a giugno è mancata Iliana, la donna che ho amato per 60 anni. Abbiamo individuato un tumore al pancreas a dicembre dello scorso anno e siamo andati subito all’Humanitas dove l’hanno operata per 10 ore. Sembrava fosse andata bene. Ma a giugno abbiamo fatto una Tac di controllo ed era un disastro, per le metastasi. Nel giro di pochi giorni se n’è andata e da allora la mia vita si è svuotata. Era una donna eccezionale. Mi manca molto, in questa casa ora troppo grande. Dopo l’attentato, in tutti questi 40 anni, mi ha tenuto sempre sotto controllo e si è presa cura di questa gamba maciullata. Mi hanno sparato quattro proiettili: uno ce l’ho ancora in un ginocchio, ma non dà fastidio, un altro ha colpito più in basso, le dita del piede sono un po’ tutte contorte, ma chi se ne fotte. Un terzo è passato a un centimetro dal fegato. Quello è andato via, è entrato e uscito. Per fortuna, perché un centimetro più in là e io non starei qui a parlare con te. Il quarto ha spaccato l’arteria nella gamba ed è cominciato il disastro. Il sangue usciva a fiumi e quando sono arrivato al San Martino ero quasi dissanguato. Sono riusciti a salvarmi, però si è manifestata nei giorni successivi un’infezione devastante alla gamba. Praticamente era andata in pezzi, una necrosi gravissima. A Torino c’era un professore molto bravo. Mi ha fatto un’operazione per prendermi un pezzo di pelle qui sull’addome, isolarlo da una parte all’altra, poi me l’ha attaccato qui alla mano. E poi alla gamba, per farlo hanno tagliato il perone. Dieci anni fa mi avevano detto che era meglio tagliarla, la gamba. Ma l’idea di farmi tagliare la gamba mi sembrava un modo di dargliela vinta. Ho preferito resistere e sopportare decine di operazioni. Ma non gliel’ho data vinta. E qui mi fermo, scusami, non ce la faccio ad andare avanti. È stata ed è ancora durissima».
La tua testimonianza, in questo tempo di odio, è preziosa. Bisogna ricordare cosa è successo in quegli anni, in cui l’odio si tramutò in violenza.
«Sono stati anni terribili. Bisogna tornare indietro e pensare al ‘68. Nel mondo il ‘68 è stato una rivolta generazionale, che richiedeva pace, libertà, diritto. Ha cambiato le società occidentali proprio in questa direzione. La guerra nel Vietnam per l’America e i diritti civili in Europa portano il segno di quella spinta. Andai con Iliana a Parigi proprio nel maggio ’68, eravamo all’interno di un mensile, Il gallo, che era di un gruppo di cattolici del dissenso. Vedemmo il Sessantotto francese: quella è stata una rivolta essenzialmente giovanile, la contestazione di un conservatorismo imperante. In altri Paesi non ha assunto poi una connotazione ideologica, non è sfociato in violenza. In Italia il frutto marcio del ’68 è stato il terrorismo. Già nel ’69 si era costituita a Genova la banda del XXII ottobre, che poi uccise brutalmente il postino Alessandro Floris e nel ‘69 si era riunito a Chiavari il gruppo costitutivo delle Br, a cominciare da Curcio. In Italia la matrice politico ideologica marxista-leninista ha preso il sopravvento sulla rivolta generazionale. Perché è avvenuto? Quella matrice ideologica si è collegata in qualche modo al filone della resistenza tradita e della rivoluzione mancata. Non dobbiamo pensare sia finita, questa storia».
Tu hai avuto minacce anche pochi anni fa.
«Sì, ne parleremo, se vuoi. Ma ora mi riferivo a un fatto che mi ha colpito. Nel 1973 all’Ansaldo fu messa una stele che ricordava i giovani operai partigiani caduti per mano fascista. Quella stele poi l’avevamo trasferita a Sestri quando si era costituita la Esaote. Quando l’azienda si è spostata in collina a Erzelli, ho detto al consiglio di fabbrica: “Questa stele la portiamo con noi, non la lasciamo qui. Adesso è un posto abbandonato, ci verrà un supermercato, i nostri martiri vengono con noi”. A giugno abbiamo fatto l’inaugurazione della stele a Erzelli. Dopo qualche giorno è arrivato in rete un attacco durissimo: “Castellano come al solito ha voluto mescolare le cose, la vera Resistenza è quella contro il capitale, contro i padroni”. E questo mi fa pensare alle parole che mi disse il generale dalla Chiesa».
Lo hai incontrato?
«Il generale dalla Chiesa ha voluto vedermi qualche mese dopo il mio attentato, voleva capire cosa pensavo del terrorismo a Genova, delle Br. Quella notte siamo stati per alcune ore in una caserma in corso Europa. Lui mi diceva: “Io non riesco a capirla questa città, il nucleo non riesco ad agguantarlo, è da qualche parte ma mi sembra non siano isolati, che godano di un consenso diffuso nella città”. E aveva ragione. Abbiamo esaminato con lui fabbrica per fabbrica, le organizzazioni sindacali, i partiti, il porto, le realtà giovanili, quelle cattoliche. Perché a Genova c’era don Gallo, ma anche il cardinale Siri. Una realtà piena di contrasti, lacerata. Quando ci siamo lasciati gli ho detto: “Io non volevo vederla, Generale, ma la ringrazio, lei è un autentico servitore dello Stato”. Perché il modo con cui cercava di capire le cose era molto rigoroso».
Prima del tuo attentato ci sono a Genova molti episodi di violenza. L’assassinio di Floris, il rapimento Sossi, l’omicidio Coco.
«La banda del XXII ottobre ha fatto impressione, erano definiti i Tupamaros della val Bisagno. Però si pensava che fosse un gruppo piccolo, non un pericolo. Il rapimento Sossi è stata invece una cosa pesante. Sossi era considerato uno di destra, vicino all’Msi, e un certo mondo della sinistra, tanto per cambiare, l’ha presa col dire “vabbè, se l’è cercata”. L’omicidio di Coco è stata una cosa terribile. Per le modalità, per l’assassinio della scorta. A Genova in quegli anni sono state uccise una dozzina di persone e siamo stati feriti in una quarantina. Dirigenti d’azienda, politici, giornalisti, uomini delle forze dell’ordine e della legge».
Tu eri un importante dirigente dell’Ansaldo, iscritto al Pci...
«Mi ero iscritto nel ’76 assieme a mia moglie, avevo fatto prima parte dell’Istituto Gramsci, un bellissimo centro di formazione politica e culturale. Quando ci siamo iscritti al Pci, Iliana ed io, sentivamo che, con Berlinguer, era arrivato il momento in cui anche persone come noi, di formazione cattolica, rompessero il muro che c’era stato tra il Pci e le forze e le persone democratiche e di sinistra. Chi viveva in fabbrica sentiva che non aveva senso che il mondo operaio e chi lo rappresentava rimanesse fuori dal governo del Paese. La mia non era una scelta ideologica, ma politica e ideale. Ero condirettore generale dell’Ansaldo, avevo in mano la pianificazione strategica e i sistemi informativi. Allora erano 15.000 le persone che lavoravano all’Ansaldo, c’era il nucleare, i trasporti, l’automazione industriale. Quando ho chiesto di iscrivermi il segretario regionale mi ha detto che ci avrebbe pensato e dopo poco mi ha richiamato: “Guarda che a Roma vogliono conoscerti, prima di darti la tessera”. Sono stato da Luciano Barca e Gerardo Chiaromonte. Mi hanno fatto una specie di esame, hanno voluto capire perché avessi deciso di prendere la tessera del Pci. Io, forse in modo ingenuo, risposi: “Sento che è giusto che questo Paese superi questa frattura enorme tra mondo del lavoro e potere politico, bisogna ricomporla”».
Come è stato per te, figura anomala in quei tempi, vivere nel Pci?
«Mi sono sentito sempre in una comunità. Dopo l’attentato tanti compagni della fabbrica e di Genova mi sono stati vicini. Ma ora mi torna alla mente, vivido, un altro episodio. Per la riabilitazione sono andato a Ischia. C’erano le ferite aperte di questa gamba che erano terribili e orribili. A Ischia c’è la fonte Nitrodi dove per secoli erano stati portati i muli che avevano ferite alle zampe. Li mettevano lì e guarivano. Io ero a Lacco Ameno, all’hotel Reginella, e per caso un ragazzo che lavorava lì era un compagno e ha avvisato la sezione. Mi prendevano con un’automobile e mi portavano a Nitrodi, dove però c’erano da scendere gradini per 50 o 100 metri. Mi portavano sulle spalle e mi riportavano in albergo. Poi a un certo punto non potevo più andarci perché stavo male, allora prendevano da lì delle enormi damigiane d’acqua e me le portavano, per lavare la ferita. Non posso dimenticarlo. Scusami, non ce la faccio ad andare avanti...».
Tu Berlinguer lo hai visto più volte? Che impressione ti ha fatto?
«Tante volte, è venuto a trovarmi un paio di volte anche a Torino, quando ero in ospedale. Era un uomo straordinario, pieno di riservatezza, non espansivo. Sentivi che dietro quegli occhi c’era una persona dolce, che però non riusciva o non poteva esprimere questo suo modo di essere. Lui ha cambiato profondamente il Pci ma non è potuto andare oltre. Il Pci è finito il giorno dei suoi funerali. Noi abbiamo perso quattro anni, dopo la morte di Berlinguer. Natta era una gran brava persona ma di fronte agli avvenimenti gravi intervenuti in quegli anni ci voleva un salto di qualità enorme. Io rimprovero un po’ anche Lama e Giorgio Napolitano, al quale sono stato molto vicino. Bisognava cambiare prima nome e identità e avviare una ricomposizione della sinistra per costruire quella grande forza riformista che l’Italia non aveva mai avuto».
Quindi eri per cambiare nome prima?
«Sì, assolutamente sì. Quell’identità dichiarata strideva da tempo con ciò che il partito di Berlinguer era diventato. Alla fine degli anni Ottanta, deluso, sono uscito dal Pci. Ma sono sempre rimasto da questa parte, per i miei valori, e ho sempre votato per ciò che da quella storia si è via via generato. Sai cosa mi piaceva del Pci? Che fin dagli anni Sessanta si sforzava di capire, come e più di altri, il capitalismo».
Torniamo alla sera dell’attentato.
«Ero andato a trovare l’ingegner Puri perché stavamo scrivendo un paper sulle partecipazioni statali. Era novembre, il 17 novembre, sono uscito da casa sua e volevo andare all’edicola che è all’inizio di via Nino Bixio. A un certo punto mi sono visto davanti due giovani, molto giovani, che hanno incominciato a spararmi. Io sentivo e vedevo i proiettili. Vedevo la fiamma dalle pistole e sentivo il dolore alle gambe. Allora ho cercato in qualche modo di scappare ma non riuscivo a muovermi. Ho cercato di fare qualche passo, per sottrarmi al fuoco. A un certo punto sono caduto, il proiettile che mi ha colpito all’addome probabilmente mi ha preso mentre stavo cadendo. Se volevano ammazzarmi mi ammazzavano subito, non c’era bisogno di spararmi soltanto alle gambe. Poi si è saputo che erano due, e uno che faceva il palo. Il professore, Fenzi».
Gli altri chi erano?
«Sai che non ricordo neanche il nome? Io mi sono presentato al processo chiedendo solo una lira di risarcimento danni. Non volevo i loro soldi».
Li hai visti in faccia?
«Sì».
Nessuno di loro ti ha mai cercato?
«Mi ha scritto Fenzi un paio di volte ma non gli ho risposto. Dopo l’attentato sono continuate le minacce. Pensavano che smettessi di fare il mio lavoro, che mi ritirassi a vita privata. Invece ho continuato e siamo venuti ad abitare in questa casa. Avevo fatto mettere per fortuna le finestre blindate. Ci hanno sparato a quella finestra lì, e poi dall’altra parte. E non siamo mai riusciti a capire chi lo ha fatto e perché».
Quando è successo?
«Appena siamo arrivati qui. Tre anni dopo l’attentato, nel 1980. Allora per sicurezza ho portato la famiglia a Londra per 9 mesi. Ma ho continuato a fare il direttore della pianificazione dell’Ansaldo, non ho mai smesso. Un giorno mi stavano facendo, a questa gamba, un esame con un elettromiografo della Siemens per vedere se c’erano terminazioni nervose attive perché, per me, la cosa terribile è che non ho nessuna sensibilità sulla pianta del piede, mi si aprono le ferite senza che io senta niente. Mentre ho sensibilità nella gamba. Mi è venuto in quel momento da pensare: “Se la Siemens fa queste apparecchiature e prima mi avevano fatto una Tac con un’apparecchiatura General Electric, perché non possiamo farlo anche all’Ansaldo?”. Ero convinto che l’elettronica, anche quella medicale, fosse la linea sulla quale potevamo sviluppare, come Ansaldo, nuove vocazioni senza incasinarci solo col nucleare. Ma quando parlavo di Tac e risonanze tutti mi guardavano come un pazzo. Comunque nell’81 abbiamo costituito l’Ansaldo Elettronica Industriale e io sono stato nominato amministratore delegato. Abbiamo fatto uno studio ed è emerso che c’era uno spazio di mercato. Allora Prodi era presidente dell’Iri. Sono andato da lui e gli ho presentato il progetto. Dopo una settimana in cui lo aveva studiato mi ha chiamato e ha detto: “Mi piace, investiamo nel medicale”. Diede mandato alla Ansaldo di investire 2 miliardi di lire, che allora non erano pochi, e abbiamo avviato un gruppetto, da zero».
Quanti dipendenti aveva quel ramo d’impresa, alla fine?
«Millequattrocento».
Quindi il paradosso è che, grazie alla tua voglia di non arrenderti alla violenza, sono stati prodotti millequattrocento dipendenti.
«È incredibile, ma è così».
Quando eri in Esaote ti hanno di nuovo minacciato. Nel 2012, solo sette anni fa. Sembra incredibile.
«Sì, è stata una minaccia che è arrivata dagli anarchici. Hanno scritto: “Al vecchio zoppo non è bastato l’attentato scorso quando era un padrone dell’Ansaldo... questa volta non avrà modo di rialzarsi...”. Seguiva l’indicazione del modello della mia auto e la targa. Poco prima gli stessi avevano sparato a un dirigente Ansaldo. Adinolfi...»
Sì, e parliamo di poco tempo fa, non degli anni di piombo. Ti fa paura questo ritorno di un clima di odio? Ti sembra che assomigli a quello che ti colpì?
«No, è un altro odio, sotto un certo profilo è anche peggio. L’altro era gestito da gruppi solidi ma minoritari. Era specifico, però terribile. E la società civile era forte. Ora è diffuso, sta diventando una norma, è la negazione dell’altro da sé. Molto pericoloso».
Come reagì la fabbrica quando fosti colpito? E la sinistra?
«Tra i lavoratori ci fu una solidarietà straordinaria. Ma in quegli anni, non bisogna negarlo, c’erano aree di ambiguità. Come l’aberrante teoria dei “compagni che sbagliano”».
Dopo il tuo attentato viene ucciso un operaio comunista che aveva denunciato la presenza di fiancheggiatori delle Br tra gli operai della sua fabbrica. Conoscevi Guido Rossa?
«No, non l’avevo conosciuto. Mi colpirono molto, le trovai sincere e coraggiose, le parole pronunciate da Lama ai suoi funerali. Luciano è venuto in piazza De Ferrari e ha detto che Rossa era stato lasciato solo. Quando lui era andato in consiglio di fabbrica per condividere la scelta della denuncia si era sentito dire di lasciar perdere, di non esagerare. E lui invece è andato a fondo, ha capito che il cancro era lì. Come c’era nell’Ansaldo nucleare. In fabbrica avevamo anche una parte di operai che diceva: “Ma sì, lasciamoli fare”. Era questo consenso sordo e silenzioso quello che preoccupava il generale dalla Chiesa. Pensa che a via Fracchia, il covo Br snidato dai carabinieri, c’erano tremila schede su “obiettivi” genovesi. Qualcuno, in ogni luogo, forniva informazioni dettagliate alle Br. C’era una rete. Devo avere di là la scheda che mi riguardava, era molto dettagliata».
Cossiga ti ha mai cercato?
«No».
Era al Viminale quando fosti ferito.
«Sì, ma non mi ha mai cercato».
Cosa pensi del perdono?
«Mai e poi mai accetterei di perdonare. Posso cercare di capire perché sono successe certe cose, ma non perdono. Chi devo perdonare? Chi per una follia ideologica ha cambiato il corso della mia vita e mi ha consegnato un percorso di dolore che non finisce? Proprio no. Io voglio capire perché è successo, cos’è successo, chi c’era, chi c’era dietro... Voglio capire quali errori della società abbiano fatto finire così il ’68 italiano. Sono stati anni orribili. Io penso che anche il Pci abbia avuto delle responsabilità, non abbia capito la portata di quella strategia del terrore. Guido Rossa e io eravamo militanti del Pci, per questo ci hanno colpito. Un dirigente d’azienda e un operaio. Il partito di Berlinguer era nemico dei terroristi. Ma io non smetto di pensare a Guido. Se non l’avessimo lasciato solo, se avessimo fatto tutti insieme quella denuncia, lui non sarebbe stato ucciso. Non si è capito, non si è voluto capire».
Come ti sembra oggi l’Italia?
«Siamo in un momento delicatissimo per questo Paese, che può fare un salto di qualità solo se la sinistra cambia punto di vista e sposta il suo sguardo sui giovani, sul futuro. Si sta compromettendo il destino delle prossime generazioni. Ci vorrebbe un “Progetto giovani” che partisse dagli asili, dal sostegno all’istruzione e all’innovazione. Aiutiamo i ragazzi a trovare garanzie sociali nuove, facciamo in modo che non vadano all’estero. Questa quota 100 mi sembra una cosa aberrante, rivolta contro i giovani italiani. Come i dati dimostrano. Lo si fa per i voti, lo so. Ma è così che si è sfasciata l’Italia. Questo Paese non sta andando avanti, è fermo. Stiamo accumulando i problemi, rimandandoli ai nostri figli e nipoti. Il debito pubblico prima o dopo qualcuno lo dovrà pagare, dovranno farlo loro. Secondo me la diseguaglianza più terribile oggi è tra gli anziani e i giovani. Bisogna che la sinistra cambi il modo di ragionare. Ma ci rendiamo conto che fra 10 anni, di questo passo, non ci sarà più possibilità di finanziare neanche gli anziani con le pensioni più basse? Noi il ‘68 lo abbiamo perso allora ed è andata nel modo peggiore. Una parte dei giovani ha seguito l’assurdità della guerra armata e l’Italia ha frenato la sua trasformazione. Ora dobbiamo garantire un futuro ai giovani. Lo dice un uomo anziano, con addosso i segni della follia del passato e dell’odio».