Corriere della Sera, 8 dicembre 2019
Perché gli studenti italiani non imparano?
Spesso accusati di agire in segreto, per una volta il mese scorso i ministri finanziari europei hanno davvero avuto una discussione semi-clandestina. Non si parlava di regole sul debito o per le banche, ma del più pubblico dei problemi: quanto spendere e come far sì che una nuova generazione di europei impari qualcosa sui banchi di scuola. L’idea era della Finlandia, uno dei Paesi che investe di più in educazione: ha chiesto alla Commissione europea di mettere in rapporto la spesa pubblica per scuole e università dei vari Paesi e i risultati degli studenti.
Era questo l’aspetto che molti governi, comprensibilmente, non volevano fosse reso noto. Nessun politico, uomo o donna, ha voglia di essere giudicato a Bruxelles e criticato in patria perché magari usa il denaro dei contribuenti senza risultati visibili. In un’epoca di confronti internazionali continui sulle performance dei Paesi, mostrare che si buttano dei soldi addosso a un problema non basta più. Bisogna anche che lo si veda nelle classifiche. Il rapporto della Commissione è dunque rimasto confidenziale, ma il Corriere ha cercato di replicarne l’impianto confrontando la spesa in istruzione e i risultati dei ragazzi nei vari Paesi europei.
È un buon momento per farlo. L’Ocse di Parigi, un organismo multilaterale, ha appena pubblicato l’ultima graduatoria Pisa («Programme for International Student Assessment») sul livello degli studenti di 15 anni. Deriva da un test su 600 mila ragazzi in 79 Paesi, somministrato nel 2018. Il Corriere lo ha raccontato in dettaglio il 4 dicembre con Gianna Fregonara e Orsola Riva.
Per l’Italia si profila un declino delle competenze dei quindicenni e delle capacità di svilupparle. Nell’Unione europea, il Paese scende dal 18esimo al ventesimo posto su 28: superato da Lituania e Ungheria, distanziato da Lettonia e Repubblica Ceca, lontanissimo dalla Polonia (che è la vera sorpresa: balza al terzo posto subito dietro a Estonia e Finlandia).
In parte, era prevedibile: per la scuola nel bilancio pubblico resta ben poco. Nel 2015, ultimo anno con dati ufficiali confrontabili fra un numero sufficiente di Paesi europei, l’Italia è appena diciannovesima per spesa pubblica in istruzione in proporzione dal reddito nazionale (Pil). Piazzarsi ventesimi per le competenze dei ragazzi, in media, potrebbe essere solo il risultato della scarsità delle risorse dedicate. Né consola molto che il Nord vada meglio, quasi su livelli polacchi. Perché non solo il Sud va malissimo. Anche il Centro Italia è sotto la media Ocse in scienze e lettura, è appena sopra solo in matematica e comunque da un Paese con il trentesimo tenore di vita per abitante più alto al mondo ci si aspetterebbe qualcosa di più che misurarsi a una media Ocse. Questa è fatta in buona parte da economie molto meno ricche dell’Italia. Nei suoi studi la stessa Ocse mostra per esempio che nelle scienze in genere c’è una stretta correlazione fra il livello scolare dei quindicenni e il reddito per abitante nel Paese: più è alto il secondo, più sale il primo; in questo gli studenti italiani invece sono ben sotto a dove dovrebbero essere per il livello di benessere del Paese.
Ma, appunto, almeno un po’ deve dipendere anche dalle strette di bilancio. Eurostat, l’agenzia statistica europea, mostra che la spesa pubblica in istruzione in Italia scende dal 4,6% del Pil nel 2009 al 3,8% del 2016. Non solo è una quota enormemente più bassa rispetto ai primi anni del Dopoguerra, quando arrivava al 9% del Pil (lo scrive Anna Maria Poggi, Per un diverso Stato sociale, Il Mulino). L’Ocse nel rapporto «Uno sguardo all’istruzione 2019» mostra anche che l’anomalia italiana dal 2010 a oggi è soprattutto in un taglio di spesa molto più profondo a questo settore che alla spesa pubblica in genere: in proporzione, si è scelto di penalizzare l’istruzione quasi cinque volte di più.
Resta però il dubbio se davvero questa scivolata verso il basso nelle competenze dei ragazzi italiani rispetto agli altri europei dipenda solo dalle risorse in meno. Se davvero sia colpa dei vincoli del debito o, come dicono alcuni, dell’«austerità» e magari dunque anche delle regole dell’euro. Merita di essere studiata bene questa questione, perché un’analisi dei numeri da vicino la smentisce. «Uno sguardo all’istruzione 2019» mostra come non sempre ogni euro speso si traduce in competenze dei ragazzi: quasi tutti i Paesi europei che investono meno dell’Italia per ogni studente dai sei ai quindici anni di età hanno anche risultati superiori all’Italia nei test Pisa. È il caso (in ordine decrescente di spesa) della Spagna, dell’Estonia, di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia, Irlanda e Lituania. Quanto alla Svezia, ha risultati molto peggiori di quanto farebbe prevedere la sua altissima spesa in istruzione.
Tutti i valori sono espressi in parità di poteri d’acquisto – corretti per tener conto del costo della vita nei vari Paesi – quindi sono confrontabili. L’Europa centro-orientale, con meno risorse, sta superando l’Italia. Da anni la Polonia riduce la spesa scolastica in rapporto al Pil, ma balza in avanti nelle classifiche per la competenza dei ragazzi. Dunque sui risultati degli italiani devono pesare anche altri fattori: dai divari regionali, alla motivazione personale e delle famiglie, ai programmi o alla loro esecuzione.
Osserva Riccardo Ricci, responsabile nazionale delle prove scolastiche Invalsi: «La spesa in istruzione non è solo bassa, è anche meno efficiente che in altre aree d’Europa. Dobbiamo porci il problema del modo nel quale utilizziamo le risorse». L’Ocse nota che in passato risultati frustranti nei test Pisa hanno spinto certi Paesi, dalla Colombia al Portogallo, a reagire e fare molto meglio. Magari ora sarà la volta buona dell’Italia.