La Lettura, 8 dicembre 2019
Un concerto di Vinicio Capossela
Frequento i concerti di Vinicio Capossela da più di un quarto di secolo – da quando era un ragazzo che amava il tango e stravedeva per Tom Waits. E ricordo che fin da allora i suoi concerti facevano accorrere un pubblico molto affezionato e motivato, attratto da lui come le bestie dal cibo. Sì, eravamo veramente come un’arca di Noè, noi spettatori dei suoi primi concerti – topi, cani, serpenti, bovini, insetti, felini, uccelli, pesci, che convergevano fin sotto al suo palco sbucando dalle fogne, dalle cucce, dalle tane, dalle stalle, dai nascondigli, dai nidi, dai buchi nei muri e dalla profondità del mare. Oggi la fama di Capossela attrae un pubblico molto più vasto ma è ancora così, si tratta ancora di un’attrazione animalesca, tanto più che adesso sappiamo che ai suoi concerti non solo incontreremo altre bestie come noi, nel pubblico, ma molte altre verranno cantate, e canteranno, e si avvicenderanno sul palcoscenico. E quante ne abbiamo incontrate, in questi anni, di creature, grazie a lui: muli, sirene, grilli, rondini, tori, pettirossi, giraffe, balene, misteriosi animali nascosti nel grano…
Perciò, suona del tutto naturale che dopo quasi tre decenni di attività Capossela pubblichi, nel maggio scorso, un disco intitolato Ballate per uomini e bestie, e che ora porti in giro per l’Italia un concerto/spettacolo con questo stesso titolo. Concerti/spettacolo, infatti, bisogna chiamare le sue esibizioni dal vivo dai tempi, perlomeno, di Ovunque proteggi (2006), dove si alternano esecuzioni, monologhi, presenze evocate e incarnate, numeri d’arte varia, costumi, maschere (tante maschere), e cappelli (tanti cappelli).
Partito all’inizio di ottobre per un tour nei teatri di tutta Italia, il concerto/spettacolo Ballate per uomini e bestie approda dunque a Firenze, al Teatro Verdi, alla vigilia di un’altra importante riunione di bestie – le sardine, che l’indomani riempiranno Piazza della Repubblica. (Altro chiaro segnale dei tempi cupi di cui Capossela va cantando da tempo: solo le bestie possono salvare gli uomini). E nel teatro, luogo di convenzioni spazio-temporali, il primo animale a venire evocato è anche quello più profondamente seppellito nel nostro passato: l’uro, il cavallo-bisonte estinto, ma «nella pietra intinto», poiché ha mosso l’uomo al suo primo gesto artistico, a Lascaux, oltre diciassettemila anni fa.
Sulla iuta grezza dello sfondo le immagini delle pitture rupestri si alternano alla ricca documentazione iconografica che Capossela ha studiato per lo spettacolo introducendo le «ossa torte» del secondo brano, la Danza macabra che segna il trionfo della morte e della sua «equaleza». Capossela è poi un maestro, ormai, degli intermezzi parlati, quei brevi testi molto ispirati che fissano anche nella non-musica le suggestioni appena create dalla musica, ed è gioco facile per lui dipingere lo scenario pestilenziale che stagna attorno alla diffusione dell’immondizia linguistica nel web, per cui al terzo brano, La peste, appunto, siamo già in un non-tempo tanto primordiale quanto contemporaneo: la peste che «libera il tremendo, dentro», «la peste virale, che libera e fa uguali». Dalla maschera grifagna del virus passa poi al colbacco peloso del licantropo per il primo momento veramente memorabile del concerto, Le Loup Garou, col desiderio irrefrenabile di carne cruda, il bisogno di trovare il passaggio tra uomini e animali, di «correre in mezzo ai morti, sbranare via i ricordi, sbranare via il pensiero, lasciare il reale ed entrare nel vero». La mutilazione riabilitatrice, alla fine, l’urlo straziato del lupo mannaro («le loup ga-rouuuuuuuuu!») che diventa ululato («auuu!»), e perciò la visita a sorpresa di miss Joni Mitchell che è stata la prima a mettere in un brano l’ululato del lupo (vero, in quel caso), quarant’anni fa, alla fine di The Wolf that Lives in Lindsey...
E poi altri monologhi, altre trasformazioni, altra selvaggia vitalità, N uove tentazioni di Sant’Antonio con un vago saluto a Brian Eno e tutte quelle meravigliose rime in «onio» (demonio, stramonio, pandemonio, ctonio, plutonio), fino all’irruzione della bestia più realizzata e dritta e sicura di sé con Il testamento del porco, in cui il maiale che sta per morire scannato si lascia al prossimo, a tutti in parti uguali, consapevole d’aver «vissuto davvero», «senza un momento di pentimento».
L’impasto ormai è fatto: Capossela al centro del palco con la maschera da grugno di porco, il suo gruppo elettrico e medievale che lo incalza e lo sorregge, le immagini sulla iuta, i monologhi di raccordo – non c’è un punto debole, non c’è una smagliatura, l’altrove e l’altroquando sono costruiti, sono solidi, il concerto non è più solo un concerto, è un’esperienza. È a questo punto che Capossela può permettersi una vacanza tra le parole di Oscar Wilde nella Ballata del carcere di Reading e di John Keats ne La belle dame sans merci, che ammorbidiscono il suo canzoniere in un bagno di medioevo vero e non più simbolico, in un bestiario d’amore e non più di morte. Ma poi gli animali riprendono a galoppare, con la fuga soave de La g iraffa di Imola durante la quale si avverte nel composto musicale la visita fatata di Frank Zappa, e coi Musicanti di Brema — «l’asino fatto vecchio», il «cane stracco», il gatto «nero di malumore» e un gallo che «cacciava la bile»: creature superflue che trovano nella musica la via di fuga dalle loro vite segnate.
Da qui in poi il concerto/spettacolo/esperienza si affolla di un serraglio festoso e spaventoso di Marajà, sirene, orsi erranti, passi dell’oca, fanfare, fate, santi, prima della torsione fatale verso il cuore della faccenda – perché va bene divertirsi, cantare, ballare, suonare, travestirsi, ma la faccenda un cuore ce l’ha, ed è lo smarrimento del senso del sacro che abbuia questo nostro medioevo contemporaneo. Le bestie sono state il tramite per avvicinarci a questo cuore, dove palpitano i misteri – della natura, della religione, del linguaggio. La madonna delle conchiglie, «dallo sguardo dolce e un poco assente/ di chi ti capisce ma non può farci niente», è un soave ma anche durissimo atto d’accusa contro la nuova disumanità che lascia affogare gli ultimi e se ne vanta, mentre Il povero Cristo è il gioiello che sappiamo, ammirato e premiato in lungo e in largo nella sua versione in videoclip prima di approdare a questo qui e ora nel quale la forma della ballata si perfeziona in autentica, emozionante preghiera. Dopodiché, con la resurrezione laica dell’Uomo vivo («nemmeno il tempo di resuscitare/ subito l’hanno portato a mangiare»), e la sarabanda apocalittica del massacro Al Colosseo («si divorino le fiere al Colosseo»), il concerto finisce, e i musicanti lasciano il palco di nuovo mascherati da bestie. Ma in realtà ovviamente non è finito, il sipario non cala, Capossela e la sua band ritornano sul palco per profittare dello squarcio da essi stessi praticato nel mondo reale, inscenarvi l’incontinenza orgiastica del Ballo di San Vito («scaccia il male che c’ho dentro e non sto fermo»), e successivamente trascinarci tutti nel più smisurato degli abbracci, in quel «paradiso dei calzini» dove si ritrovano gli smarriti, gli abbandonati, i dimenticati, gli spaiati, i pezzi unici, gli impigliati di tutto il mondo – tutti vicini, tutti uguali, tutti fratelli. Ed ecco, come sempre da quando è stata composta, il concerto finisce davvero con Ovunque proteggi e la sua formidabile benedizione a tutti i perdenti («E se mi trovi stanco/ e se mi trovi spento/ se il meglio è già venuto/ e non ho saputo/ tenerlo dentro me»), il suo irripetibile distillato di grazia e di pietà.
E invece no, in questo tour il concerto non finisce con Ovunque proteggi: c’è un ultimo animale, ora, perfetto per accomiatarsi perché arriva effettivamente sempre ultimo, e permette a Vinicio Capossela di lasciare noi, sue bestiole affezionate, con parole che sembrano versi di Milo De Angelis: «Non siamo quello che abbiamo, siamo quello che lasciamo. Cerchiamo di lasciare una buona scia». E attacca La lumaca, l’ultimo meraviglioso brano delle Ballate per uomini e bestie, con quel nonnulla di tasti bassi di pianoforte che va a toccare direttamente l’inconscio. (Ascoltatelo, se potete, ascoltatelo adesso, mentre finite di leggere questo articolo). Le sue strofe finali spingono – inappellabilmente, stavolta – i musicisti fuori dal palco, ma al rallentatore, come si muovessero nel fondo del mare, o sulla luna, in una slow-motion che è beatitudine, teofania, cancellazione del malcontento; strofe finali che sono forse ciò che di più ispirato Vinicio Capossela abbia scritto per questo suo ispiratissimo lavoro: «Umile/ c’è spazio per tutti/ ricondurre il mondo/ all’umile/ e piccolo/ fuori dal tempo/ dell’Utile e del Lavoro/ Il Sacro è lento e immanente/ Sfidare il tempo facendolo lento/ rallentare il tempo/ rallentare il tempo/ e godersi la scia/ e godersi la scia/ e godersi la scia/ e godersi la scia…». L’indomani, come s’è detto, quarantamila sardine nuoteranno nella pioggia di Firenze. Umile, c’è spazio per tutti...