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 2019  dicembre 08 Domenica calendario

Intervista al futurologo Peter Schwartz

«Uno scenario per il nostro futuro? Un mondo di tecnologie embedded intorno a noi. Sensori e meccanismi di comunicazione che consentono di spargere l’intelligenza artificiale ovunque: nei muri, sulle sedie, nei tavoli, negli elettrodomestici, in auto. Sistemi digitali che ti riconoscono e organizzano i servizi di cui hai bisogno. Il tutto senza fatica o frizioni: voce, non tasti da digitare. Strumenti che garantiranno anche la sicurezza e che, quindi, sorveglieranno, con i relativi problemi di privacy. Non è fantascienza: sono tecnologie che già esistono e il mondo del quale le parlo è quello che ho immaginato vent’anni fa quando Steven Spielberg mi chiese di disegnare gli scenari tecnologici del futuro per il film Minority Report».
Nel mondo della tecnologia Peter Schwartz è un personaggio molto particolare: un futurologo capace di guardare lontano con le sue visioni affascinanti, ma anche un ingegnere aeronautico con i piedi per terra che ha iniziato la sua carriera alla fine degli anni Sessanta, lavorando alle ultime missioni spaziali Nasa del programma Apollo. Grande amico di Stewart Brand, una delle figure storiche della cultura informatica americana, collabora con lui nella Long Now Foundation che sta completando la costruzione, nel cuore di una montagna del Texas di proprietà di Jeff Bezos, di un mastodontico orologio meccanico capace di funzionare per diecimila anni senza interventi esterni. Un progetto visionario e complesso, lanciato nel 1986. «L’anno prossimo funzionerà!», dice con l’entusiasmo di un bambino questo scienziato di 73 anni la cui fantasia creativa è impressa non solo in Minority Report, ma anche in altri film dei quali è stato consulente tecnologico, da War Games a Deep Impact.
Ma dietro la fantasia c’è la conoscenza profonda della tecnologia e la capacità di prevedere i suoi sviluppi. «La Lettura» lo incontra durante la convention annuale di Salesforce, gigante dei sistemi informatici per le imprese. «È buffo. Hanno messo a esplorare il futuro – ridacchia – il dipendente più vecchio di un gruppo che ha decine di migliaia di addetti».
Vecchio, ma capace di guardare lontano. E molto ottimista sulla tecnologia. Vent’anni fa, a chi gli chiedeva come si immaginava vent’anni dopo, rispose: «Avrò il fisico di un quarantenne grazie alle biotecnologie». La pensa ancora così? «Giudichi lei: ho un’anca artificiale, ho due occhi aggiustati chirurgicamente e non ho mai giocato a tennis così bene. Dopo l’operazione che ha eliminato la cataratta vedo la palla in modo molto più nitido e con l’anca nuova corro con l’agilità di un ragazzo».
Dunque crede nella Singularity, la fusione tra uomo e macchina che dovrebbe farci vivere oltre i 120 anni o, addirittura, in eterno?
«No, credo nella tecnica, ma non nella Singularity. È una lettura sbagliata della tecnologia. Ray Kurzweil mi piace: è una bella persona, uno che ispira, ma ha torto».
Lei parla di un mondo pieno di sensori. Sembra quello di «Minority Report». Sta diventando realtà? E ancora: lei adora la tecnologia, che però, nel film, fa paura.
«Si sta materializzando quel mondo. Ho sbagliato solo due cose: pensavo che il cambiamento avvenisse nel 2050 e invece arriva nel 2020. Pensavo succedesse a Washington e invece sta succedendo in Cina».
Quello della tecnologia che sorveglia, però, è un problema per tutti. La Cina la usa per reprimere. Ma può succedere anche qui in Occidente. E le aziende hanno acquistato un potere immenso con i dati, gli assistenti vocali come Alexa entrano nelle nostre vite.
«L’assistente personale è utile. Lo è in casa e lo diventerà ancora di più in ufficio: un segretario in grado di svolgere con pochi ordini vocali, senza frizione, molti compiti di routine. Occupandosi delle mie spese, dei viaggi, prendendo appunti. Così potrò dedicarmi a compiti più complessi. Certo, ci sono problemi di privacy e di possibili pregiudizi negli algoritmi che gestiscono i processi. Vanno considerati con attenzione. Per questo Salesforce ha costituito una commissione etica».
Vede soluzioni praticabili?
«Nel caso dei pregiudizi spesso il problema non sta nella tecnologia ma nel modo in cui viene usata. Come l’algoritmo delle banche accusato di discriminare le donne, soprattutto single e senza lavoro. Qui il problema non sta nell’algoritmo, ma nei dati che la banca inserisce nel sistema. Se metti nell’algoritmo un set di dati imbevuti di pregiudizi, avrai un algoritmo prevenuto».

Non si tratta solo di algoritmi. Chi ieri ammirava la tecnologia oggi ne ha paura. Teme i giganti di big tech e l’automazione che mangia posti di lavoro.
«Non credo che alla fine mancherà il lavoro. Pensi alle donne della metà del secolo scorso. Quelle che volevano lavorare erano infermiere, insegnanti, dattilografe. Ad esempio nelle banche. Oggi le dattilografe non esistono più, ma in banca vediamo più donne: ricevono e consigliano i clienti, sono alla cassa, sono manager. Ma è vero che la transizione è complessa e produce stress. Ed è vero che oggi siamo nel bel mezzo di una crisi di fiducia: il mondo ha improvvisamente smesso di credere nella tecnologia. Per riconquistare credibilità le aziende devono essere più trasparenti e devono sentirsi più responsabili per le conseguenze sociali».
Autoriforma o regole fissate dall’autorità politica?
«Discorso complesso. Serve anche una cornice generale, bisogna reinventare il capitalismo come dice il mio Ceo, Marc Benioff, pensando alla comunità e alla qualità del lavoro, oltre che al profitto degli azionisti. Comunque serviranno regole. Alcune ci sono già, come il Gdpr in Europa o le leggi della California per la tutela della privacy. Altre verranno. Ma molto va fatto dalle aziende: cambieranno rotta, anche per la pressione dei cittadini, che sono i loro clienti».
Crede nell’autoriforma di Facebook?
«No, quello di Facebook è un caso a parte, con un impatto culturale disastroso. Ma non credo che il loro modello di business basato sulla pubblicità diffusa via social network terrà a lungo: è pieno di condizionamenti ed è facile da manipolare. Ad esempio Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia, ha lanciato una rete sociale basata su abbonamenti: paghi 5 dollari al mese, ma non hai i condizionamenti della pubblicità. Credo sia il futuro. Impareremo a cambiare i nostri comportamenti. Dobbiamo capire che stiamo entrando in un nuovo territorio. È già successo con la rivoluzione della tv o quella del telefono che hanno cambiato le nostre comunità. Serviranno, come allora, regole di governo, ma anche nuove regole sociali».