la Repubblica, 8 dicembre 2019
La vecchia storia della natura morta
Simbolo della caducità della vita, dell’effimero che attanaglia la materia e l’umanità intera, il soggetto pittorico della natura morta porta con sé una spontanea attinenza con le ambizioni ideali che la fotografia ha maturato sin dai suoi esordi. Proprio questa affinità, consolidata nel tempo tra i due linguaggi artistici, è la ragione principale della presenza di una sezione fotografica all’interno della mostra di dipinti. Il binomio artistico tra pittura e fotografia vuole significare quel sentimento di continuità e di fascinazione che ancora oggi pervade la produzione contemporanea, andando al di là dei mezzi di produzione e degli strumenti creativi e ponendo l’attenzione sui sentimenti degli autori, sui loro sogni e sulle loro visioni più intime. Pertanto, nell’ambito di un tema ricco di suggestioni e riferimenti iconografici, la selezione delle fotografie in parete vorrebbe raccontare come la natura morta abbia seguito un itinerario autonomo, in cui ogni scatto rappresenta il punto di arrivo di un’azione consapevole, che vuole penetrare la realtà e andare oltre le apparenze. Dalle Vanitas capaci di trarci in inganno di David LaChapelle ai crudi e ironici reportage di Martin Parr sul consumo di massa, dai magnifici e sensuali fiori di Robert Mapplethorpe a quelli lussureggianti di Nobuyoshi Araki, dalla riflessione sul contenuto letterario delle fotografie di Franco Vimercati all’idea della classicità pittorica di Hans Op De Beeck, fino alle valutazioni di Nino Migliori sulla trasformazione della materia: sono tutte storie, sicuramente parziali e non esaustive del tema, che raccolgono l’esperienza di un’estetica che si è fatta disinibita e che può contenere, senza alibi e paure, una dimensione etica che sposta più in là i confini della fotografia. Quando in una mostra si accostano fotografia e pittura, sembra inevitabile fare riferimento all’accesa discussione ottocentesca tra coloro che riconoscevano a entrambe virtù artistiche e ideali, e coloro che, invece, consideravano la fotografia solo uno strumento tecnico, una stampella a sostegno delle arti maggiori. Tra le tante voci, quella più curiosa e forse più “definitiva” si ritrova in una sentenza del tribunale di Parigi del 9 gennaio 1862. In quella tesi si afferma che la fotografia è una vera e propria arte. Sono di grande importanza le parole dell’avvocato difensore di due fotografi allora coinvolti, accusati di violazione del diritto d’autore: «Verità e bellezza sono la stessa cosa sia per il fotografo sia per il pittore e scultore. Il pittore crede che il proprio occhio sia simile a una macchina fotografica che registra la natura e con i mezzi di cui dispone la fissa, così come la chimica fissa l’immagine fotografica. Il fotografo deve avere la stessa inventiva del pittore, deve innanzitutto avere un’immagine in mente, composta dalla sua fantasia». I termini di questa sentenza, dunque, pongono le basi di una riflessione profonda su cosa sia l’opera d’arte e su come questa possa vivere e resistere nel tempo, ben oltre la materia di cui si compone. Tuttavia, nel caso specifico di questa mostra, il dialogo tra pittura e fotografia non si concentra solo sulla natura differente dei due linguaggi artistici, ma anche e soprattutto sul rapporto che instaurano con il tema della natura morta. Non a caso, dinanzi al grande dilemma dell’esistenza, ognuna risponde con sensibilità e con attitudini differenti. La prima con la dimensione contemplativa e malinconica della Vanitas, la seconda con l’illusione dell’eternità, prodotta da un apparecchio ottico in grado di fermare il tempo e duplicare il visibile in immagini fisse e, solo apparentemente, veritiere. L’autore cura la sezione fotografica della mostra. Il testo integrale del suo intervento è nel catalogo pubblicato dalla casa editrice Marsilio Le foto Hans Op De Beeck: Vanitas 1 (2001); in alto, David LaChapelle: Springtime (2008-2011) dalla serie Earth laughs in Flowers