la Repubblica, 8 dicembre 2019
L’impossibilità di raccontare la Dc
La Dc “non si descrive, si constata”, si arrese un corrispondente di Le Monde da Roma. Vivemmo sotto un regime che non voleva né poteva essere raccontato. Se la Dc morì senza canti e senza compianti, non fu colpa solo del clima giustizialista. C’era qualcosa, nell’essenza stessa del potere democristiano, di refrattario alla narrazione. Ed oggi che le narrazioni sono la benzina dei nuovi poteri, quella sua opacità è la sua condanna all’oblio. «Della Dc hanno sempre parlato gli altri»: ha ragione Marco Follini che solo dopo una trentina d’anni ha deciso di colmare la lacuna, cioè di riscattare con questo suo Democrazia Cristiana. Il racconto di un partito (Sellerio) la mancante autobiografia morale di un partito- stato che fece di tutto per non avere un’epica, e finì per passare direttamente “dagli altari del potere alla polvere del dimenticatoio”. Follini fu l’ultimo dirigente dei giovani dc, e già questa è una definizione ardita, ossimorica, perché la Dc nacque già adulta, non conquistò il potere, se lo trovò in tasca per necessità storica. La Dc ebbe bisogno di una biografia perché era certa di essere eterna. Il potere, è la tesi di Follini in un libro indulgente ma non reticente, fu più forte delle parole, e ne ebbe sospetto. La Dc si sforzò di restare un partito scialbo, nei simboli, nelle personalità, nella dialettica. Un partito “mai avvincente, poco fantasioso e per niente avventuroso” per meditata scelta e non per incapacità. Un partito generato da un Paese bloccato in un mondo spaccato, che coltivò la virtù della lentezza come prova della vocazione alla durata, che sopravvalutò l’incolore, il mediocre, l’attutito, il misurato, un partito moderato per intima consistenza. Follini, dunque, racconta un partito cristiano che ebbe bisogno della Chiesa più di quanto la Chiesa avesse bisogno di lui, gestito con la comoda etica del peccatore e con un leaderismo frenato che tollerava una certa misura di umane debolezze e furberie, purché non minassero le fondamenta della casa comune. I democristiani sapevano di non essere amati da un Paese che li votava turandosi il naso, di essere “minoranza politica ed estrema minoranza culturale": superarono entrambi i complessi con una strategia da impero romano, che non pretese di plasmare gli italiani, ma riuscì ad assorbirli, a incarnarli. La vera catastrofe Dc fu il rapimento Moro, quando fu costretta a fare una scelta netta, quella della fermezza, che non corrispondeva alla sua cultura politica. Ma ora la domanda, tra gramsciana e machiavellica, è se il regime soffice di quel partito manzoniano sia stato una patologia della politica italiana o il limpido inveramento della sua essenza. Follini sembra sapere la risposta, ma da buon democristiano lascia che soffi nel vento.