la Repubblica, 8 dicembre 2019
Oscar Wilde il mistificatore
La vita di Oscar Wilde sembra fatta apposta per mettere in difficoltà un biografo (un biografo, intendo, animato da uno zelo positivo di stampo settecentesco e impermeabile alle suggestioni della “vita romanzata"), visto che non c’è aspetto, nei gesti, nella condotta, nelle affermazioni di questo straordinario poseur che non sia programmaticamente (e però anche naturalmente, congenialmente) improntato alla mistificazione. Wilde cambiava nome e soprannome così come si cambiava d’abito, si fece eleggere abbastanza presto come arbiter elegantiarum quando non faceva che satireggiare ogni tipo di moda, si acconciava da greco e da italiano, da barbaro e da orientale; e naturalmente da uomo e da donna. Aveva rapporti con ogni genere di persona, transitivamente: frequentava le regge e i salotti ma anche gli angiporti, impostava le proprie relazioni su un piano ora di raffinatezza intellettuale ora di immediatezza fisica, è passato alla storia come maestro di aforismi senza aver mai pubblicato una raccolta di aforismi, ha pubblicato molto ma ha sempre alimentato l’idea che la sua vera opera fosse nella chiacchiera o nella vita stessa, o ancor meglio nei pettegolezzi degli altri su di lui. Ecco, fosse stato il personaggio di un libro di Mark Twain quel libro si intitolerebbe L’uomo che diventò un pettegolezzo, l’uomo che a differenza di Dreyfus non ebbe bisogno di essere processato per essere “un caso” perché lo era già prima e lo rimase sempre, agli occhi dei genitori (a lungo la madre non si capacitò di non avere avuto una femmina), dei compagni e dei maestri, agli occhi della moglie, che scoprì molto presto di essere poco più di una copertura, e di questo o quell’amante, puntualmente manipolato mentre lui, Wilde, recitava alla perfezione la parte del manipolato. Il rapporto con Alfred Douglas (il destinatario del De profundis) è paradigmatico, tanto che in virtù della ridda di accuse reciproche fra i due protagonisti è diventato il terreno sul quale storici e biografi più si sono dati battaglia, declinandolo ogni volta in modo diverso. Navigando spettacolarmente sulle proprie opere come un surfista sulle onde, Wilde disegnava traiettorie effimere che lo consegnavano all’opinione pubblica e suscitavano reazioni elementari ed estreme: stratificate nel tempo, queste reazioni rendono conto della fondamentale acriticità della bibliografia critica wildiana, tutta sbilanciata sul versante biografico e anedottico. Le biografie wildiane, paragonabili per quantità e per divergenze solo alle biografie di Lewis Carroll, sono caratterizzate da un forte tasso di competitività: ognuna vuole fare giustizia dei pettegolezzi (appunto) cui le precedenti avrebbero indulto; ognuna vuol essere “definitiva” e, in termini di serietà, la “prima”. Così, per limitarci a qualche nome, a Pearson è succeduto Julian, a Julian Croft-Cooke, a Croft-Cooke Montgomery Hyde, a Montgomery Hyde Hellmann, che avendo vinto il Pulitzer per la miglior biografia sembrava aver messo una grossa pietra sulla questione. E invece ora, a trent’anni di distanza, esce un testo di oltre mille pagine salutato dal Guardian come “la biografia ultimativa”. Lo ha scritto Matthew Sturgis (tradotto da Utet in Italia), che nella prefazione, chiedendo retoricamente se una nuova biografia fosse davvero necessaria, risponde di sì soprattutto in virtù dei documenti venuti alla luce negli ultimi decenni: carte processuali, articoli di giornali, minute, e soprattutto lettere, moltissime lettere. Forte di tanta filologia, Sturgis non esita a svalutare la storiografia precedente per il suo estetismo e per la mancanza di profilassi nel tenere separata la biografia dalla critica: Hellmann, per esempio, si sarebbe comportato «più da critico letterario che da storico», fornendo «un’analisi della vita quasi esclusivamente attraverso il prisma delle opere». Per Borges ogni scrittore è doppio: c’è quello che vive perché l’altro scriva, e c’è quello che scrive ma non vive di vita propria. Come se rispettasse alla lettera questa scissione metaforica, Sturgis si occupa solo del Wilde che vive, e in questo il suo libro si colloca effettivamente ad una soglia inarrivata; il rischio però, non sempre evitato, è che trattati come “dati” i fatti siano appiattiti in un’unica prospettiva documentaria: una lettera d’amore sullo stesso piano di una richiesta di denaro, lo scontrino di un lavanderia sullo stesso piano dell’abbozzo di una poesia. Sotto questo aspetto Sturgis ha lavorato “contro” Wilde, che per tutta la vita ripeté di aver messo molta più arte nella sua vita che nelle sue opere. Per contro, Wilde sembra essersi già vendicato, perché la sua azione mistificatrice non si è esaurita il 30 novembre 1900, giorno della sua morte; al contrario, come ammette con un filo di sgomento lo stesso Sturgis, «nella sua esistenza postuma ha indossato tante maschere quante ne sfoggiò in vita, e con il medesimo brio. È stato un ribelle della controcultura, un martire gay, una vittima dell’oppressione coloniale britannica, un proto-modernista, un precursore del cool, e la lista non si esaurisce certo qui». Come avrebbe accolto, Wilde, queste mille pagine? Lui, che sceglieva le medicine in base al colore delle pastiglie e che non riuscì mai a vivere senza vedersi vivere? Probabilmente con l’aria monellesca di chi fingendosi pentito di una gaffe dice: «Oddio, l’ho fatta grossa!». Poi però avrebbe aggiunto le parole che anche Sturgis pone a epigrafe del capitolo sul carcere: «Non chiedetemi di parlarne, per favore». Il libro Oscar di Matthew Sturgis (Utet, trad. di Luca Fusari, Sara Prencipe, pagg. 1040 euro 42)