il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2019
Biografia di Stefano De Martino raccontata da lui stesso
Sudore, tenacia, capacità, un pizzico di faccia tosta e incoscienza, e improvvisamente, a trent’anni, Stefano De Martino non fa più di cognome BelenRodriguez (tutto attaccato).
Lanciato su Rai2 da Carlo Freccero, ha prima condotto Made in Sud e poi Stasera tutto è possibile al posto di Amadeus (“Ho passato l’estate a studiarlo, poi ho lasciato perdere, altrimenti sarei stato la sua brutta copia”).
E così il bello, il chiacchierato, il gossippato, l’invidiato (per la moglie), il deriso (sempre per la moglie), il predestinato al ruolo di meteora, ha stupito molti, in particolare i risultati dell’Auditel, ed è diventato una delle poche novità della stagione televisiva (“ho una fortuna: mi basta il minimo sforzo per sorprendere”).
Non male come fortuna.
Il punto è uno: magari mi sottovalutano per l’apparenza o l’idea preconcetta, quindi basta un po’ di studio, di approfondimento per ribaltare i canoni del giudizio altrui.
Lo sapeva.
Cosa?
Del successo in arrivo.
Dentro di me sì, ci speravo. (Ci pensa). Se uno non è convinto, ha già perso.
Ci vuole disciplina.
Quello sempre: il talento, senza disciplina, è un Eden riservato a pochissimi, e io non sono in quella cerchia.
Saggio.
La disciplina alleggerisce le paure, relativizza le deficienze artistiche, ti obbliga a ripetere all’infinito fino a quando uno non ci si avvicina allo standard opportuno.
Così serio anche a scuola?
Ci andavo pochissimo, talmente poco da non avere grandi ricordi; il problema è che non riesco a focalizzarmi contemporaneamente su troppe situazioni, e gli studi mi distraevano.
In teoria doveva essere il contrario.
Me lo diceva anche mio padre.
Suo padre era ballerino.
E non voleva proseguissi con la danza, temeva delusioni e porte in faccia, temeva facili illusioni: da noi il posto fisso era, e forse è, il “cerchio magico” di un’esistenza tranquilla.
Era un leader.
Io? Non ci penso proprio, non voglio queste responsabilità e poi frequentavo troppo poco la scuola per avere un ruolo.
Come passava la giornata?
Sono di Torre Annunziata e lì c’è il sole quasi tutto l’anno, quindi andavo al mare, non restavo chiuso in casa intrappolato dai social.
Per carità.
Il mio primo cellulare l’ho ottenuto a 17 anni: rientro ancora nella generazione del “cosa facciamo?”.
Traduzione.
Da quando le persone hanno i cellulari e sono perennemente connesse ai social, i momenti di pausa, di dubbio e confronto sono ridotti a meno del minimo; da ragazzo era normale riflettere sul prossimo domani, quindi “cosa facciamo?”.
Ha recuperato: è molto social.
Per forza, poi sono curioso, ed è pure una questione di lavoro; resta che i social un po’ li temo: uno deve imparare a gestirli senza subire.
Mica facile.
Lo dice a me? (E scoppia a ridere, la sua vita privata e sentimentale è spesso argomento di dibattito). Mio figlio già smanetta con il cellulare e non mi piace: l’unica difesa è la selezione delle informazioni, altrimenti siamo come perennemente seduti alla tavola di un fast food.
E il gossip?
Ora riesco a dormirci sopra, prima erano cavoli.
Cioè?
Lo subivo, le vicende personali inglobavano il resto: mi ritrovavo ovunque e la situazione è peggiorata dopo il matrimonio e la nascita di mio figlio, ma se basi la tua carriera solo sul gossip rischi di venir cancellato quando ancora ti stai guardando allo specchio.
Filosofo.
No, esperienza di mercato.
Che mercato?
Prima della televisione, vendevo frutta e verdura al mercato, e tutti i personaggi famosi li vedevo ogni giorno sulle riviste patinate, e ogni giorno ci incartavo la lattuga, le fragole, gli spinaci. E sa perché utilizzavo le riviste e i quotidiani?
No.
Per tenerle fresche, quella carta rilascia la giusta umidità, non si rovina il prodotto.
Qual è la morale?
Che quando esce una bella foto, una bella notizia, o qualcosa di brutto, penso sempre di restare calmo, che tutto passa, e magari quella foto finisce per contenere un bel cavolo al mercato.
Di quei personaggi sulle riviste, chi voleva conoscere?
Pippo Baudo, Mara Venier e Renzo Arbore.
Grandi classici.
Sono cresciuto con quella televisione, con Domenica In e gli altri varietà della Rai.
Sarà contenta Mediaset, lei è nato lì.
Infatti Maria De Filippi e Amici racchiudono il massimo della tradizione televisiva italiana, e dirò loro sempre grazie.
Non passioni da trentenne.
In alcune situazioni mi rendo conto di risultare atipico, e oggi a trent’anni sei in un limbo, troppo vecchio per i diciottenni, troppo piccolo per i cinquantenni: in mezzo tra una tradizione nazionalpopolare e un’altra che arriva dai social.
Per tornare al mercato, non è né carne né pesce.
Ascolto jazz e classici italiani, e magari subito dopo canto la trap (variazione del rap); l’altra mattina, mentre accompagnavo mio figlio a scuola ho messo la trap, ho iniziato a sbattere la testa a tempo, al semaforo uno mi ha guardato preoccupato, così ho abbassato il volume e mi sono vergognato.
Cosa ascolta di italiano?
Lucio Dalla; Futura è la mia preferita, poi Cara: se questi testi fossero stati scritti in inglese, Dalla sarebbe al livello di Springsteen.
Come mai questi gusti?
Dipende da cosa ascoltano i tuoi genitori in macchina, per questo quando accompagno mio figlio a scuola, e impiego mezz’ora, scelgo brani ad hoc per regalargli un po’ del mio bagaglio emotivo.
Da cosa parte il suo bagaglio emotivo?
Dalla danza, perché mi ha salvato in tempo, ha evitato le fasi inutili, mi ha obbligato a impegnarmi tutti i giorni per un obiettivo.
Niente strada.
No, quella fase non si tocca, era il luogo di ritrovo con gli amici.
A 18 anni è stato ingaggiato da una compagnia di New York.
E anche di allora ricordo poco.
Impossibile.
Da giovanissimo uno vive a una velocità eccessiva, uno non si rende conto quasi di nulla, e io ero esattamente così, e non parlavo in inglese.
Sensazioni?
Lì il professionismo è a livelli esagerati; loro sono esagerati in tutto, basta vedere in quali confezioni giganti vendono il succo d’arancia.
Comunque…
Pochi giorni dopo dal mio arrivo la compagnia organizza uno spettacolo a Central Park, e immaginavo una situazione quasi amatoriale. Macché. Folla clamorosa. E poi tournée in Australia, Nuova Zelanda e Hawaii: di quel periodo ricordo solo l’ultima serata sul palco.
Ride molto?
Troppo. E in questi anni qualcuno ci è rimasto male, si è sentito preso in giro, quindi ho imparato a tacere. O almeno spero (Resta zitto un secondo, si guarda le mani). A vent’anni non vedevo l’ora di scappare da casa, il paese è piccolo, la gente mormora, mentre oggi mi rendo conto di essere nato e cresciuto in un posto pieno di autenticità.
Non artefatto.
Ognuno in paese ha un ruolo sociale.
Il suo?
Mio nonno gestiva il bar, lì i vecchi giocavano a carte, fumavano, vedevano le partite, gli incontri di boxe come quelli di Tyson; ricordo l’evoluzione dei telefoni, dal gettone alla scheda, fino a quando è diventato inutile. E io ero suo nipote.
Secondo Biagio Izzo “Gomorra dà una brutta immagine di Napoli”.
Perché questo interrogativo non viene posto a De Niro e Scorsese per The Irishman?
Quindi?
Gomorra è una serie che è riuscita a far emergere a livello internazionale talenti campani, senza stupirsi troppo dei drammi narrati, già conosciuti; insomma, per me da una situazione pessima è uscito qualcosa di buono.
Il fisico l’ha salvata dai complessi?
Forse nel tempo, ma da ragazzo ero gracile e con le scapole alate, e anche dopo, quando ho iniziato a danzare, il fisico non era adatto, non rispettavo in pieno i canoni. E ne ero conscio.
Però un bello.
Stessa storia, l’ho capito dopo, all’inizio pensavo potesse intaccare la carriera da ballerino.
#MeToo al maschile?
Di concreto mai successo nulla, e un po’ mi dispiace, perché l’avrei raccontata con gusto. Giusto qualche messaggio bipartisan.
Comico preferito?
Nino Frassica: ha un umorismo surreale senza pari, una battuta frutto di un’idea, mentre spesso i ragazzi improvvisano con tempi figli delle piattaforme web.
Più brevi.
Sul web devi risultare immediato, non puoi cercare una risata a rilascio lento.
Soffre d’ansia?
Molta prima di debuttare al posto di Amadeus; oh, Amadeus è uno che ha scritto “presentatore” sopra la carta d’identità, io no. Lui è uno che non sbaglia nulla, uno che studia e riesce a inserire sempre un riferimento sull’attualità, per questo inizialmente l’ho studiato, poi ho capito che non era la strada opportuna.
Meglio evitare confronti…
Preferisco rovinarmi con le mie mani; questo lavoro non te lo insegna nessuno, non c’è un corso universitario, e oggi la gavetta è meno frequente, e gli spazi che trovi li devi ottimizzare per scovare la tua quadra.
Alla fine…
Avevo dei dubbi, invece mi sono stupito di me stesso.
Magari un giorno Sanremo.
Ora? Neanche per tutto l’oro del mondo: lì se sbagli sei morto, se fai bene hai la strada spianata. E per come sono ora dovrei affidarmi solo al culo, e di culo nella vita ne ho già avuto abbastanza.
Scaramanzie?
Infilo prima la scarpa sinistra e ho corni dappertutto, pure sul petto.
Vizio.
Mangerei pasta tutto il giorno, tutti i giorni; qualche ristorante di Milano ha sul menu “primo piatto light”, e per me è una bestemmia.
Virtù?
E che ne so?, sono molto autocritico, un cacacazzi e pignolo.
Belle virtù.
Sembro Furio di Carlo Verdone, però lo riconosco.
Gratta e vinci?
No, perché mio nonno al bar aveva la ricevitoria e non ho mai visto vincere nessuno.
Mai.
Quando qualcuno acquistava una lotteria istantanea, e non vinceva, mia nonna di nascosto prendeva una schedina e provava: era sempre convinta fosse arrivato il momento giusto. Nonno la rimproverava.
Cosa legge?
Sono radical chic e popolare.
Democratico.
Ho appena finito il libro di Paolo Bonolis e sono a metà de La fata carabina di Pennac. Amo il personaggio di Malaussène.
Ora è pronto?
Oddio, a cosa?
C’è la domanda.
Quale? (Agitato).
Su sua moglie.
Ah, vabbé (si rilassa il viso e ride a lungo), è normale, è un classico, almeno solo ora. Di solito è il punto di partenza e comunque è mia moglie e la madre di mio figlio e ognuno deve fare il suo sporco lavoro. Anche io.
Chi è Stefano De Martino.
Uno che oggi capisce con gioia cosa vuol dire essere nato negli anni Ottanta a Torre Annunziata.
(Canta Niccolò Fabi in “Una buona idea”: “Sono orfano di pomeriggi al sole, delle mattine senza giustificazione. Dell’era di lavagne e di vinile, di lenzuola sui balconi, di voci nel cortile”).