la Repubblica, 8 dicembre 2019
53 mila fondazioni al servizio dei partiti
Provate voi a orientarvi in una nebulosa di seimila fondazioni, think-tank, comitati, popolati potenzialmente da 53.994 politici di ogni schiatta, dal consigliere comunale al ministro. «Missione degna dell’ultimo capitolo di Star Wars», scherza un parlamentare di lunga militanza. Eppure è proprio lì, negli angoli più o meno remoti di questo macrocosmo, che si nasconde il nuovo tesoro dei partiti, o dei loro leader. I cinque magistrati che, per legge, dovrebbero monitorare questa galassia, hanno già alzato le braccia: «Senza risorse e mezzi è impossibile svolgere il nostro ruolo con autonomia e indipendenza», hanno scritto in una relazione i membri della commissione di garanzia nominata dai presidenti di Camera e Senato. E c’è da credere a loro. Inseguendo la sacrosanta esigenza di trasparenza denunciata più volte da Raffaele Cantone (nel 2018 solo il 10% delle fondazioni pubblicava i propri bilanci), il decreto Spazzacorrotti, convertito in legge nel gennaio scorso, ha pensato bene di equiparare, per gli obblighi di pubblicità, questi organismi ai partiti tradizionali. Dandone una classificazione piuttosto estesa, per usare un eufemismo: rientrano nel novero delle organizzazioni da monitorare tutte quelle strutture i cui organi direttivi sono composti per un terzo da persone che hanno avuto incarichi politici negli ultimi sei anni. Fatti i conti (la legge esclude solo i Comuni con meno di 15 mila abitanti) si tratta appunto di quasi 54 mila persone. Com’è finita? In un modo inevitabile: «Ci troviamo con una norma scritta male – sottolinea Vincenzo Smaldore, responsabile editoriale di Openpolis – e con un organo di controllo che non ha gli strumenti per vigilare». Perché è alla stessa commissione di appena 5 persone che spetterebbe sanzionare tutte le associazioni che non depositano bilanci e non forniscono l’elenco dei finanziatori, ma alla fine alla commissione non è rimasto che chiedere aiuto agli stessi partiti, che dovrebbero autocertificare i rapporti con questo o quell’ente. Siamo in una sorta di regime di volontariato, come si intuisce, e l’obiettivo è anche parzialmente sbagliato: oggi fondazioni e think-tank hanno legami non con i partiti ma direttamente con i leader. Un esempio su tutti è costituito dalla fondazione Open, che ha organizzato le Leopolde di Renzi, alla ribalta per le indagini in tutta Italia. Il punto è ormai noto: in un momento di crisi finanziaria dei partiti – con le entrate tradizionali dimezzate negli ultimi 5 anni – sono queste strutture parallele ad accompagnare e sostenere l’ascesa di movimenti e singoli esponenti politici. I comitati Azione Civile di Renzi hanno raccolto 500 mila euro prima della nascita di Italia Viva, con un percorso che ha visto come momento clou la scuola estiva “Meritare l’Italia”, coordinata da Elena Bonetti che poi Renzi ha voluto nel governo Conte II. E tra i finanziatori di Azione Civile altri tre membri del governo indicati dall’ex Rottamatore: Anna Ascani (vice ministra all’Istruzione), Teresa Bellanova (ministra all’Agricoltura) e Ivan Scalfarotto (sottosegretario agli Affari esteri). Su un altro fronte, la rottura di Giovanni Toti da Forza Italia è stata preceduta dall’iniziativa del comitato Change, che ha fatto da apripista al movimento del governatore ligure (Cambiamo!) con finanziamenti – nei primi mesi del 2019 – pari a 211 mila euro, la metà dei quali dalla società di navigazione Moby. «Che questo intreccio possa nascondere un grande conflitto d’interessi è evidente – dice Smaldore –. Se un leader politico nomina in un ruolo istituzionale un finanziatore della sua fondazione, siamo nel campo della corruzione o no?». Quesito che spetta ai magistrati affrontare. Quel che è certo è l’incrocio fitto fra esponenti istituzionali e vertici di enti pubblici da un lato, e fondazioni più o meno note dall’altro. Nove ministri dell’attuale governo hanno un ruolo in una o più fondazioni: Nunzia Catalfo, Rosalba Daidone e Stefano Patuanelli sono responsabili di dipartimento dell’associazione Rousseau (finanziata anche con il contributo mensile di ogni deputato), Federico D’Incà è consigliere delegato della fondazione Italia-Usa. Roberto Speranza di Leu e Francesco Boccia del Pd sono nel comitato di indirizzo della fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema. A questa stessa struttura collabora, nel comitato di redazione della rivista, anche il ministro per il Sud Peppe Provenzano, che è pure nel comitato scientifico della fondazione Giorgio Amendola. Mentre Vincenzo Amendola sostiene “Riformismo e libertà” e Roberto Gualtieri è nel comitato scientifico del Centro studi di politica internazionale. I punti di contatto fra la politica e le strutture parallele sono chiari. E lo diventano ancor di più spostandoci nel campo del centrodestra. Dove l’associazione di simpatie leghiste A/Simmetrie sovraintende alle manovre economiche che passano dal parlamento, vantando fra i propri iscritti i presidenti delle commissioni Finanze del Senato e Bilancio della Camera, rispettivamente Alberto Bagnai e Claudio Borghi, quest’ultimo nuovamente esposto in modo fiero su posizioni anti-euro. Ma di A/Simmetrie fanno parte pure l’ex ministro Paolo Savona (che, lasciato l’incarico, è stato nominato alla guida di Consob), come Marcello Foa, presidente Rai scelto sempre dall’esecutivo gialloverde. Se non bastasse, un’altra pedina di primo piano del settore degli enti di Stato, il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo (indicato dalla Lega con il sostegno di mezza Forza Italia), figura nei comitati scientifici di tre think-tank sponsorizzati dal centrodestra: ResPublica, Iustus e De Gasperi. Un reticolo che si allarga man mano che si fa a fondo. Ma il problema è quello posto all’inizio: chi deve andare a fondo? La commissione cui la legge ha dato poteri di controllo e sanzione di questi polmoni finanziari della politica italiana, per propria ammissione, non ce la fa. Per rendere incisivo il suo lavoro, occorrerebbe almeno limitarne il campo d’azione: allargando a dismisura il numero degli enti da monitorare, si è finito (inconsapevolmente?) per ostacolare le verifiche. E così, per concludere con le parole di chi come Smaldore studia da anni il fenomeno, «il problema della trasparenza delle fondazioni non è stato risolto. È stato solo anestetizzato».