il Giornale, 8 dicembre 2019
Biografia di Jacques Rigaut
C’è un’immagine di Jacques Rigaut che sembra uscita da un film noir di Jean-Pierre Melville. Giacca, cravatta, guanti, sigaretta all’angolo della bocca, è sul sedile posteriore di una Delage decapottabile, in viaggio verso il Midi della Francia. Siamo all’inizio degli anni Venti e Jacques offre all’obiettivo l’impassibilità di un volto che un paio di occhiali da sole, assoluta novità per l’epoca, rendono impenetrabile. Fra gli amici dadaisti del suo tempo, è il più bello e il più elegante, una via di mezzo fra un tapeur professionista e un gigolò romeno, ironizza chi non lo ama. Di certo, è il meno letterato: «Il mio libro preferito è un revolver» ha detto un giorno a Philippe Soupault che gli chiedeva conto di cosa leggesse Quando, senza batter ciglio, i dadaisti diverranno surrealisti e cominceranno a baloccarsi con il tema del «suicidio come soluzione», sarà ancora più sprezzante: «Siete tutti dei poeti e io, io faccio il tifo per la morte». Ha solo trent’anni quando dalle parole passerà ai fatti, un colpo di pistola al cuore, nella solitudine di una camera al primo piano di una casa di cura per tossicomani: «Provate, se potete, a fermare un uomo che viaggia con il suicidio all’occhiello».
Rigaut muore nel 1929, quando in fondo muoiono gli «anni folli» dell’Europa fra le due guerre, il crollo economico di Wall Street, la fine di ogni euforia, l’ansia e l’inquietudine politica che ne prendono il posto. Tutti i suoi amici scrivono, fotografano, girano film: si chiamano René Clair, André Breton, Paul Éluard, Pierre Drieu La Rochelle, Man Ray, Tristan Tzara Dandy, disinvolto, lui non lascia che qualche frammento sparso e molti debiti. A New York, dove è arrivato grazie a una colletta organizzagli proprio da Drieu, il matrimonio con una ricca ereditiera americana, Gladys Barber, lo salva dai creditori, ma non dal disagio esistenziale. Una sera del 1924, a un party in una villa di Oyster Bay, il luogo più esclusivo di Long Island, ha l’illuminazione su cosa il destino gli riserva. Visto dall’esterno, il fatto in sé ha la banalità di un comportamento da ubriaco. Nel salone dove gli ospiti sono riuniti, c’è una finestra mascherata da specchio e Rigaut la spacca con una testata nel tentativo di attraversarla Visto dal diretto interessato vuol dire però tutt’altro: «Ogni specchio porta il mio nome. Il mio segreto: io sto dall’altra parte dello specchio. Da allora, sono io che vi rispondo, sono io che vi istruisco, sono io che vi modello. Io vi seguo, io sono voi». Dallo specchio nasce il suo doppio letterario, Lord Patchouge, che vive presso di lui, ha il suo stesso indirizzo, ma è l’altro io che ha mandato in frantumi quell’immagine che era la sua: «Jacques Rigaut, non vi amo», scriverà in quanto Lord Patchouge Una volta però attraversato lo specchio, Rigaut-Patchouge si accorgerà con terrore che ogni tentativo di uscire dal proprio sé è un fallimento. Ci sono solo altri specchi da rompere all’infinito, l’occhio che guarda l’occhio, che guarda l’occhio il rovescio che è eguale al dritto E, quel che è peggio, nessuno guarda più lui, immagine in frantumi e già dimenticata, di cui si possono al più raccogliere e conservare i pezzi, al meno buttarli via.
Tornato a Parigi, Rigaut si perderà fra le serate al Boeuf sur le toit, la droga, l’alcol, le donne, il delirium tremens che lo fa cadere svenuto al tavolo di un ristorante, al bancone di un bar. Nessuno ormai di quei suoi tanti amici è più in grado di salvare quello che era stato il fondatore dell’ «Agenzia generale del suicidio» Anni dopo, Breton gli renderà omaggio nella sua Antologie de l’humour noir, ma sempre in quel modo cannibalico con cui il papa dei surrealisti si ciba dei cadaveri altrui. Del resto, Rigaut lo aveva a suo tempo inquadrato mirabilmente: «Breton parla benissimo dell’amore, ma nella vita è un personaggio di Courteline». Saranno Drieu La Rochelle e Louis Malle a farlo entrare nella leggenda. Le feu follet, Il fuoco fatuo del romanzo del primo, del film che il secondo ne trarrà, è lui ed è grazie a quella doppia immagine romanzesca e cinematografica che Rigaut non è morto, ma ha continuato a vivere, oggetto di culto per le avanguardie e le controculture di qua e di là dell’Atlantico, realizzazione in fondo di quella che da vivo era stata una sua certezza: «Sarò un grande morto». Di questo magnifico suicida, Jean-Luc Bitton scrive ora la più completa biografia che si potesse desiderare (Le suicidé magnifique, Gallimard, 706 pagine, 35 euro), frutto di quindici anni di ricerche, con fotografie e documenti inediti, una sorta, se si vuole, di grande romanzo sugli anni ruggenti e sulla generazione perduta di cui Rigaut fu un perfetto eroe alla Fitzgerald, bello e dannato. Riprendendo un giudizio di Soupault, Bitton mette in rilievo come pur godendo di un’influenza considerevole fra gli intellettuali d’avanguardia della sua generazione, «Rigaut non volesse essere un letterato, non volesse essere uno scrittore. Voleva essere un uomo che stava nella vita» Se ciò ne spiega da un lato l’esiguità della sua produzione da vivo, otto testi per un totale di poche pagine, dall’altro rimanda però ad abbozzi, progetti, collage, considerazioni, tanto rimasti segreti quanto gelosamente conservati, fra cui quello che si impone, pur nella concisione di una frase, è un «Documento sull’incapacità di scrivere» Rimanda a un’ambiguità in altri casi dichiarata: «Spesso mi lamento di essere senza ambizioni, o di averne troppe, che è lo stesso, ma gli Dei sono buoni! Mi hanno risparmiato l’ambizione letteraria (come mento!)». La menzogna in questo caso era doppiamente drammatica, perché voleva dire che dietro l’affettazione a non prendere sul serio la scrittura, c’era la bruciante verità di non esserne all’altezza, una derisione che era il frutto di un fallimento. A ciò va aggiunto il fatto che, andando avanti negli anni, uno scandalo divenuto abitudine cessa d’essere uno scandalo e il comportamento sopra le righe di Rigaut, fra alcol e droga, a un certo punto gli si rivolterà contro, trasformando un enfant gâté in un abbrutito fallito da cui tenersi alla larga. Così, il suicidio di Rigaut è l’unico modo che gli resta per non morire, una sorta di muoio, dunque sono: «Domani, la fine/La fine domani/A domani la fine/La fine a domani/Domani, alla fine» Un sorridente gioco di parole per farla finita una buona volta e per sempre.
Stenio Solinas