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 2019  dicembre 08 Domenica calendario

Quelli che muoiono per un selfie

Nell’era dei social network si fa qualsiasi cosa per apparire, perfino «scomparire». Su Instagram impazzano i selfie, e benché la maggior parte di essi abbia come sfondo sontuosi boudoir per le ragazze e palestre iperaccessoriate per i ragazzi, c’è chi non intende accondiscendere a cotanto convenzionalismo, e al fine di aggiudicarsi più like si spinge lì dove in pochi avrebbero il coraggio – o meglio sarebbe dire l’incoscienza – di inoltrarsi: in cima a un grattacielo, sulla cresta di un’onda gigantesca, sulla ringhiera di un terrazzino o sui binari di un treno in corsa. Ma vale davvero la pena barattare la propria esistenza con uno scatto fotografico la cui realizzazione può rivelarsi fatale? Vi sconvolgerebbe sapere in quanti risponderebbero di sì. L’ultimo caso di «selficidio» risale a meno di un mese fa, quando un 33enne francese è morto precipitando nella cascata Na Mueang 2, in Thailandia. Il giovane non si è accontentato di immortalare il panorama, voleva esserne parte e destare l’ammirazione di quanti, fruendo dello scatto sui social, non avrebbero esitato a ricompensare la sua audacia con un apprezzamento. Ha perso l’equilibrio ed è scivolato giù in un volo di 80 metri. Per lui non c’è stato nulla da fare. Vorremmo convincerci che l’episodio in oggetto sia un caso isolato, ma a disilluderci arriverebbero i dati di uno studio pubblicato dalla rivista scientifica Journal of Family Medicine and Primary Care secondo il quale, in meno di sei anni, la macabra moda della rincorsa al selfie è costata la vita ad oltre 250 persone. La maggior parte delle vittime ha un’età che si aggira attorno ai 22 anni, ed a strizzare l’occhio all’orribile trend sarebbero soprattutto i maschi, i quali corrispondono al 72,5% del totale. L’India, con ben 159 vittime, detiene il triste primato di paese nel quale si registrano più decessi, seguita da Russia (16), Usa (14) e Pakistan (11). 

IN TANTI ANNEGANO
L’indagine non fa mistero neppure delle circostanze in cui, più frequentemente, avvengono le tragedie: l’annegamento, con 70 morti, è al primo posto. A seguire vi sono i decessi per investimento (causati spesso dal tentativo di schivare un treno in corsa restando sulle rotaie fino all’ultimo istante) e per caduta. La ricerca ha avuto luogo a partire dal 2011 e si è conclusa nel 2017 quando, a conti fatti, si è riscontrato un aumento esponenziale delle tragedie tra il 2014 ed il 2017, triennio che ha visto una capillare diffusione degli smartphone; è inevitabile dedurne che il selficidio vada di pari passo con la tecnologia: telefonini che promettono prestazioni fotografiche da sala posa amplificano il desiderio di fare spettacolo, costi quel che costi. Ma attenzione, questo non diventi un invito a demonizzare il progresso, andrebbero piuttosto imbrigliate le dinamiche che, a modo loro, promuovono il pericolo a fini d’intrattenimento: gli influencer che si imbarcano in queste avventure godono spesso di un seguito di migliaia di seguaci che inneggiano alle loro gesta, ma non sempre operano per esclusiva vanità: alle spalle hanno sponsor che, stipulando vantaggiosi contratti di collaborazione, trasformano il rischio in un vero e proprio marketing; il tutto si perpetua in una piattaforma come Instagram, dove spesso basta un capezzolo femminile a far scattare la censura. Non sarebbe il caso di adottare regole altrettanto ferree dinanzi a chi, veicolando questi azzardi mortali per mezzo di hashtag e condivisioni, fa apostolato di una moda orrorifica? Parecchi paesi sono corsi ai ripari delimitando delle «No Selfie Zones», ovvero delle aree turistiche ritenute ad alto rischio in cui è proibito assecondare la tentazione di darsi all’autoscatto, ma inutile a dirsi, il veto non frena il protagonismo di quanti sorridono all’obiettivo con aria beffatoria, in bilico tra un burrone e uno strapiombo.