Robinson, 7 dicembre 2019
Biografia di Claudio Magris raccontata da lui stesso
Ciò che alcuni vedrebbero come un cimitero di cose abbandonate, per altri è il paradiso delle cose ritrovate. Prendete questa storia delle polene — creature misteriose inchiodate sulla prua delle navi — che Claudio Magris racconta con avvincente forza letteraria, e guardatele ormai dismesse o rottamate in qualche zona nascosta di una città marina. Quello che a noi apparirebbe come mera desolazione agli occhi di un altro, di un amante che ha perso la testa per quella figuretta lignea, sembrerà il coronamento di un sogno, di un’avventura segreta e al tempo stesso rivelatrice della profondità dell’animo umano. Non so in che altro modo avvicinarmi al nuovo libro ( Polene edito da La nave di Teseo) che Magris ha scritto, o meglio ha condensato, dopo numerose esperienze, affidandogli la stessa sublime casualità che ritroveremmo in un manoscritto infilato nella bottiglia. Nei mesi scorsi Magris ha compiuto ottant’anni. Ed era da un po’ che non lo vedevo, non lo incontravo. Vagabonda spesso in giro per l’Europa, altrimenti si rintana nella sua Trieste, nei suoi caffè, in quella vita letteraria tra passato certo e presente opaco. E allora perfino le polene possono diventare un dono inatteso, un piccolo evento carico di un grande significato.
Che cosa ti ha spinto a occupartene?
«Si tratta di una fascinazione che mi sono trascinato per lungo tempo e che alla fine ha visto la luce non tanto sotto forma di invenzione quanto di resoconto tra storia, arte minore e psicologia».
Fascinazione dovuta a cosa?
«Allo sguardo dilatato con cui questi esseri — a volte animali ma più spesso ammalianti donne e raramente uomini — annunciavano le catastrofi marine. In un certo senso le prevedevano offrendo ai marinai una forma di protezione. Era questa la loro funzione. Per anni, quando ho potuto, ho visitato i luoghi dove le polene erano state raccolte o ammassate. Ricordo lo stupore nel visitare il cimitero delle polene alle isole Scilly, davanti alla Cornovaglia. Si diceva che gli abitanti di quei posti facessero apposta naufragare le navi per catturare le polene».
Un’attrazione demoniaca?
«Ci sono casi inspiegabili di innamoramento. Un ufficiale tedesco nel 1944 ne rubò una trascinandosela in albergo. Per poi spararsi. È difficile stabilire una connessione tra i due gesti. Fu la polena a farlo impazzire o era già pazzo di suo? Atlanta, il nome di quella bellissima creatura in legno, oggi si trova nel museo navale di La Spezia».
Ne parli come se anche tu ne fossi attratto?
«Lo sono perché penso che il loro sorriso sfingico nasconda qualcosa di misterioso che attiva la seduzione. Ma, al tempo stesso, non provo alcuna pulsione da collezionista».
Non ti piace collezionare?
«Detesto il collezionismo perché, nella dipendenza estrema dagli oggetti, si nasconde l’amore per la morte e il desiderio irrigidito dal possesso. Al tempo stesso mi affascinano coloro che ne sono prigionieri, perché rivelano la forza della mania».
La chiameresti attrazione per il patologico?
«Le logiche del delirio attraversano la nostra età moderna e ci indicano l’esistenza di territori mentali e psichici che non possiamo ignorare. Ma la mania di cui parlo — il collezionismo degli oggetti per esempio — può sfociare negativamente nella coazione a ripetere, ma anche indicarci qualche forma di saldezza. Mi torna alla mente, per contrasto, il rabbino che entrò ad Auschwitz con la fede in Dio e ne uscì completamente privo. Dove era finita la sua forza? Gli oggetti raccolti, dopotutto, hanno un destino diverso: passano le epoche, e loro sono sempre lì».
Gli oggetti sono anche interpretabili?
«Ovviamente sì, anche se è la cosa che interessa meno al collezionista. Non voglio dire che non ci sia. Ma tra conoscenza e feticismo è quest’ultimo a prevalere».
In un romanzo di qualche anno fa, “Non luogo a procedere”, avevi messo al centro proprio la figura di un collezionista. Tra l’altro un personaggio storicamente esistito e che tu hai conosciuto proprio a Trieste: Diego de Henriquez.
«Era un signore bizzarro che conobbi negli ultimi anni di vita. Aveva allestito un museo di reperti bellici come monito contro la guerra. Collezionava dai carri armati ai volantini, dalle divise militari ai sommergibili. Alla sua morte furono trovati dei diari dove annotava maniacalmente ogni cosa: dalle scritte sui muri sopravvissute al periodo bellico all’elenco dei nomi dei deportati e di coloro che li denunciarono. Parte di questo archivio bruciò assieme a lui nel magazzino dove dormiva».
Si parlò di un incendio doloso.
«Fu una vicenda poco chiara. Parte di quei diari andarono persi o bruciati, e sembra che un taccuino contenesse i nomi dei collaborazionisti dei nazisti che de Henriquez trascrisse direttamente dai muri della Risiera di San Saba. Ma non se ne sa di più. La storia l’ho in parte ricostruita in Non luogo a procedere, appunto. Mi interessava affrontare il tema della violenza inaudita e feroce, il senso della colpa, dell’ossessione e del tradimento. E infine ero colpito da una giustizia che non sembra quasi mai fare il suo corso».
A proposito della tua vena narrativa sei arrivato relativamente tardi alla forma romanzo.
«È stato, in un certo senso, un approdo naturale. Il prolungamento sotto un’altra veste del mio lavoro di saggista. E poi tieni conto che i primi libri letti da bambino furono le avventure di Salgari. Compresi, quasi immediatamente, che raccontare storie è fondamentale nelle nostre vite. Certo, passare al romanzo non è stato semplice. Al di là dei problemi tecnici, ho dovuto vincere le mie timidezze — ne sarò capace? — e soprattutto le diffidenze che provenivano dal mondo universitario: ma cosa potrà mai scrivere un accademico!».
Accennavi alle prime letture, in fondo anche le polene sono un richiamo ai libri e ai giocattoli dell’infanzia.
«Un bambino non è un collezionista di giocattoli ma un essere che con la propria fantasia può dare vita all’inanimato. Oltretutto, un’esperienza così fondante credo di averla vissuta grazie al piccolo teatro di burattini che uno zio favoloso mi donò. Era lo zio Nello la cui vita si concluse tragicamente con un suicidio».
Come è stata la tua vita di bambino?
«Felice, pur nell’introversione».
Cioè?
«Diciamo la solitudine come autosufficienza. Il che non mi ha impedito crescendo di socializzare nei giochi. Ma ricordo certi pomeriggi passati al giardino pubblico. Capitava che, tra gli alberi e le piante, restassi incantato davanti alle statue che ne segnavano il confine. Forse è lì, nel candore di certi marmi, che è nata l’attrazione per le polene».
Accennavi a tuo zio e al ruolo che ha avuto nella tua crescita.
«Un ruolo più idealizzato che effettivo. Ma è stato, davvero, il mago della mia infanzia. Dotato di una manualità prodigiosa costruiva i giocattoli e a volte immaginavo che li animasse. La sua morte fu per me un dolore fortissimo. Si uccise per una vita sempre in bilico tra dissipazione e debiti, tra generosità e insensatezza. Decise di togliere il disturbo in un albergo, dentro una vasca da bagno per paura di sporcare».
Cos’è il dolore di un bambino?
«Credo che sia un sentimento che non disorienta e non impedisce di crescere. In qualche modo è un mettere alla prova per gli anni a venire. Diverso dal dolore dell’adulto. Quando, dopo una lunga malattia, morì mia moglie Marisa sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Acuta fu la frustrazione e la perdita di senso».
Marisa Madieri era stata anche una scrittrice.
«Sì, raccontò in Verde acqua l’esodo degli italiani da Fiume, dove era nata, dopo la guerra. Quell’esperienza mi spinse anni dopo a scrivere Alla cieca, un romanzo sul garbuglio nel quale spesso la storia ci butta senza indicarci soluzioni o vie di uscite».
Quasi tutto quello che hai scritto dopo “Danubio” sembra voler ripercorrere il forte senso di frustrazione che l’uomo prova al cospetto di ciò che crea e puntualmente distrugge.
«Forse è così, forse ha ragione il grande attore Karl Valentin quando dice che “Una volta il futuro era migliore”. Abbiamo perso la facoltà di immaginarlo prima ancora di poterlo costruire».
“Danubio” era il futuro migliore. Quel romanzo è stato il tuo più grande successo. Ti pesa che il tuo nome sia soprattutto legato a quella esperienza narrativa?
«Perché dovrebbe? Danubio uscì nel 1986 a oggi conta numerosissime traduzioni, una delle ultime in coreano. Narravo di un mondo che non c’è più. Ma senza nostalgia. Almeno non quella nostalgia che a volte provo per gli anni vissuti immediatamente dopo la laurea».
Che cosa te la suscita?
«Dal 1962 al 1964 fui all’Università di Friburgo. Vivevo, grazie a una borsa di studio, in una stanzetta nella Selva Nera sopra un’osteria tenuta da due sorelle. Poi ho saputo che quel locale, alberghetto compreso, è stato venduto ed è strano, perché è come se improvvisamente mi fossi sentito sfrattato. E devo dire un po’ mi manca».
Era il periodo in cui la stella di Heidegger ricominciava a splendere. Visto che eri nella Selva Nera sei mai stato tentato di visitare la sua “capanna” a Todtnauberg?
«È vero in quel periodo c’era un pellegrinaggio di filosofi e poeti, tra cui il grande Paul Celan. Ero sì tentato dal provare a fargli visita. Poi vidi una di quelle foto che lo ritraevano in costume tirolese. Mi sembrò uno dei sette nani. E rinunciai».
Vuoi dire che c’era qualcosa di ridicolo?
«Thomas Bernhard in Antichi maestri ne fa un ritratto impietoso. Non discuto la sua grandezza filosofica, mi colpiva il kitsch con cui l’aveva avvolta. E che doveva piacere perché se lo papparono a grandi cucchiaiate. Però stavamo parlando di Danubio».
Ti chiedevo se quel successo sia stato un po’ anche una condanna. Diciamo la tua massima riconoscibilità, come fosse una polena attaccata alla tua prua.
«Vivo quell’esperienza narrativa come una svolta della mia vita. Semmai il libro che mi ha un po’ inchiodato a una certa immagine, molto amato ma anche respinto, è stato Il mito absburgico».
Era la tua tesi di laurea, mi pare.
«Sì, il mio correlatore Giorgio Melchiori, oltretutto anglista, la propose a Einaudi. Cesare Cases la lesse e alla fine venne fuori questo libro sul destino della letteratura austriaca».
In fondo è stato per te un modo di rileggere il Novecento.
«Assolutamente. Oltretutto, sono anagraficamente un uomo del Novecento il che, a pensarci bene, mi ha creato abbastanza problemi».
In che senso?
«Tutto confluisce e si sviluppa nel secolo che si è chiuso. Non è facile tirarne i numerosi fili. Tra gli altri lo hanno fatto con grande maestria personaggi come Musil, Broch, Roth, Joyce e soprattutto Kafka. Tutte le grandi domande sulla vita vera — sogni, utopie, orrori, rivoluzioni — sono contenute in quello spazio temporale che il romanzo ha raccontato in modo esemplare. Siamo distanti dalle due camere e cucina in cui oggi, a quanto pare, abita la narrativa».
La polena è ancora una figura novecentesca?
«Nel suo senso tragico, per il modo in cui sembra vivere dentro il naufragio, direi di sì. Per altri versi però il Novecento è anche la nascita dell’androide. Qualcosa che oggi chiamiamo post-umano. La polena è preumana. Però è come l’angelo della storia di cui parla Benjamin».
Ma non ha lo sguardo rivolto all’indietro.
«È vero, la polena è scagliata in avanti e non è lei che sceglie la navigazione. Però fiuta le macerie che ci saranno, i disastri verso cui la storia, se non se ne capisce il senso, è destinata ad andare».