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 2019  dicembre 07 Sabato calendario

Quando Maradona si è perso

Il primo Diego Maradona è morto, ma non se ne era accorto nessuno. Ci ha lasciati da giovane come un Jim Morrison e un Kurt Cobain, giacché gli eroi cari agli dèi eccetera eccetera. Il solo Asif Kapadia ha intuito cos’è successo e ne ha fatto un film, un documentario in linea con i precedenti due, dedicati ad altrettante icone pop che non ci sono più: Ayrton Senna ed Amy Winehouse. Apparsa al festival di Cannes e per qualche giorno in sala al cinema, la morte metaforica del più sovversivo tra gli sportivi dopo Muhammad Ali è da qualche giorno su Netflix, conquistando per passaparola anche chi di Maradona se ne infischia e del pallone pure.

Quando un giorno consegneremo a una nuova civiltà tracce di noi, parole scritte, immagini e tradizioni, qualcuno si domanderà che cosa avesse di speciale quest’uomo più basso della media, un calciatore non più vincente di tanti altri, per qualcuno nemmeno il più forte, per tutti di sicuro il più grande. Un ragazzo nato nella baraccopoli argentina di Villa Fiorito e da lì fuggito con ferocia grazie al dono del cielo di un piede sinistro pari per genialità alla mano di Picasso. Questo in fondo racconta Kapadia: come il caso si diverta a farci finire qui o là determinando le nostre vite. Napoli è stata la grande avventura sentimentale di Maradona e occupa il cuore del film, nato dal ritrovamento di immagini sepolte in un baule a Buenos Aires e di materiale girato da due cameramen piazzati al seguito di Diego dal suo primo manager, licenziati dal secondo.
Kapadia ha montato tutto per mostrare la sua lettura dei fatti e la sua tesi: nel trasferirsi da Barcellona a Napoli nel 1984, Maradona non sapeva fino in fondo dove stesse andando. Sull’aereo che lo portava ventiquattrenne nella città in cui " morirà", confessava al Tg2 che parte per cercare rispetto e tranquillità. Troverà l’amore, che è assai più devastante. In Argentina diventerà il simbolo della rivincita sugli inglesi dopo la guerra alle Falkland, a Napoli sarà il vendicatore atteso in sella a un cavallo bianco per battere la "Giuve", per rispondere al razzismo negli stadi del nord, per vincere finalmente. « Ai napoletani non interessa dei figli, delle mamme, l’unica cosa che interessa loro è come gioca il Napoli la domenica » , dice la sua voce. Una città che lo ha circondato, stretto — lui che non ama essere toccato — spinto a vivere di notte più di quanto lui già amasse farlo. La sola cosa che Napoli non ha fatto con Maradona è stata cibarsi della sua carne. «Ho rappresentato una parte d’Italia di cui non importava niente a nessuno».
Ribelle. Sfrontato. Dio. Così Kapadia descrive il suo eroe. Martín Caparrós una volta lo ha definito l’unica icona argentina che non ha avuto bisogno di fingersi altro, non come Che Guevara il cubano, Eva Duarte l’hollywoodiana, Leo Messi il catalano. Il preparatore atletico Fernando Signorini separava Diego da Maradona, l’uomo dal simbolo. « Con Diego andrei in capo al mondo, con Maradona non farei un passo». La Napoli anni ’80 che lo accolse era una città potente, ministri e sottosegretari di governo, progettava il Centro direzionale, viveva una guerra di camorra con gli appalti del terremoto come montepremi. Ma per quella che oggi si dice narrazione, non era ancora Gomorra, al massimo un set poliziottesco — e del resto anche Milano spara e la polizia risponde. Kapadia apre il documentario con una scena che viene dritta da quel sottogenere lì. Era una Napoli vitale, capace di portare sulla scena pop diverse figure, ciascuna con una sfumatura sua, eppure coerenti l’una con l’altra, da Massimo Troisi a Pino Daniele, da Luciano De Crescenzo a Nino D’Angelo. Maradona è dentro questa scena. È uno dei sovvertitori dell’ordine.
Avere questo Maradona accanto era segno di potere. « Mi trovai a casa loro, a cena, al mio fianco c’era lui con la pistola. Sembrava una scena de Gli intoccabili » . Loro sono i Giuliano, il clan di Forcella rivale di Raffaele Cutolo. Lui è Carmine, il boss. Offrono droga e protezione. Chiedono in cambio il favore di inaugurare circoli e andare alle feste. Maradona tira cocaina dal lunedì al mercoledì, dal giovedì si ripulisce per la partita. Forse, dice il suo presidente Ferlaino, qualcuno fa la pipì ai controlli al posto suo. Così cominciò a disfarsi un ragazzo dalla bellezza che fermava gli orologi, fino a non esistere più, a farsi sostituire sulla scena da un tipo malmostoso che sorrideva sempre meno, dal corpo trasformato, uno che fissava il vuoto durante la festa di Natale come Troisi il vetro del ristorante durante un matrimonio in Ricomincio da Tre, la stessa inadeguatezza, lo stesso sentirsi fuori luogo. Il resto si sa. Diego si scopre padre di un bimbo partorito da una ragazza napoletana, il suo primogenito, e sbam, va in crisi di fronte a Claudia, la sua ragazza docile e silenziosa che dice: « Ho sempre scommesso sul nostro amore » . Un mondo di certezze che crolla.
È questo nel film l’inizio della morte metaforica. Maradona la seppellisce nel cuore, finge di non vederla insieme a tutta Napoli. Vorrebbe andarsene. Ma Napoli più vince e più ne vuole. «Quando sei in campo la vita sparisce». I bambini nascono e si chiamano tutti Diego. « Sono stato il suo carceriere» dirà il presidente Ferlaino. Kapadia mostra di credere alla tesi della vendetta. Poiché Diego ha eliminato l’Italia ai Mondiali del ’90, dentro stadi che lo odiano e in cui si fischia l’inno argentino, arrivano le intercettazioni telefoniche, l’avviso di garanzia per spaccio, la positività all’antidoping. Maradona era diventato troppo. « Lo sai chi era Masaniello? » gli domanda Gianni Minà. «Non voglio fare una brutta fine » risponde Masadiego. Scappa. «Quando sono arrivato, c’erano 85mila persone. Quando sono andato via, ero da solo».
Morto questo Maradona, un po’ alla volta può riaffacciarsi Diego. Quando si sente sul punto di perdere per ko il match contro la droga, trova i figli a salvargli la seconda vita. Senna ed Amy non ne avevano. Kapadia lascia la scena finale ai due Diego finalmente vicini, il dio padre e lo junior che lo ha trasformato due volte, in un abbraccio sulla soglia di una casa finalmente da condividere. La pace con i fantasmi. La tranquillità.