Corriere della Sera, 7 dicembre 2019
Dolce & Gabbana alla Scala
Ecco Tosca e poi Aida, Violetta, Giulietta, madame Butterfly e Turandot. E Odabella e Santuzza e Gilda e Norma e Rosina ed Elisabetta. Incedono con i loro mantelli ricamati d’oro e di pietre, i loro strascichi di chiffon, le marsine di broccato, le pellicce dagli infiniti intarsi e gli abiti bustier di regale bellezza. Un uomo in frac le presenta, ad una a una: narra di drammi e amori e battaglie. Mentre le arie che raccontano di queste eroine le accompagnano sulla grande pedana di velluto rosso che attraversa da parte a parte la platea della Scala, dal proscenio verso il palco reale, come un ponte immaginario fra le creatività: la moda e l’opera. Domenico Dolce e Stefano Gabbana escono nel finale a raccogliere gli applausi trattenuti uscita dopo uscita (oltre centocinquanta) per rispetto al luogo e allo spettacolo ma che avrebbero potuto scrosciare lungo tutti i quaranta minuti dello show.
L’Alta Moda, la collezione interamente fatta a mano e di pezzi esclusivi, degli stilisti dei «sogni senza tempo», va in scena con una regia perfetta, senza profanare nulla di quello che sta attorno: la scenografia della Tosca che oggi apre la stagione della Scala. Non era così scontato. Gli stilisti portano non una, non due ma ben dodici opere d’ispirazione: epoche, Paesi, stagioni si susseguono così con un ritmo unico, accompagnando per mano la fantasia dello spettatore a viaggiare nello spazio e nel tempo. L’abito «manifesto» sempre, con il cartellone ricamato. Poi ecco il rosso della Tosca, l’oro fiero dell’Aida, i broccata della Traviata, l’impeto barbaro delle pellicce di Attila, i cristalli e le piume dei Capuleti e Montecchi, i kimoni con lo strascico di madame Butterfly, le marsine della cavalleria Rusticana, il nero della Turandot, gli short di seta del Rigoletto, il tripudio di mantelle della Norma, le vesti spagnoleggianti del barbiere di Siviglia, le frange della Turandot, le mitre del Don Carlo.
Non c’è limite alla fantasia: «Quando facciamo l’alta moda – raccontano – non pensiamo ad altro che a creare. Non chiediamo mai il prezzo di una stoffa. Se è quella, è quella e basta». La libertà assoluta persino all’ultimo minuto di cambiare lo spartito e magari eliminare un’opera che non avrebbero potuto rappresentare bene, come per esempio La Sonnambula, o tagliare qualche «comparsa», allo scopo di emozionare sempre di più con gli abiti, lasciando che a parlare siano ispirazione e forme e lavorazioni. Le prime e le seconde sorprendono gli occhi. Le terze stupiscono il tatto: i ricami che sono sempre più unici e uniscono a istinto le tecniche più disparate con la novità di un punto effetto tricot in fettucce di organza davvero originale per i preziosissimi pullover. Per non parlare dei gioielli, presentati la sera prima, a palazzo Clerici: di una eleganza regale. E l’esperimento di vestire anche i bambini.
Non c’è uscita che non faccia storia a sé. «Ed è grazie all’amore per il nostro lavoro – dicono gli stilisti – che ci accorgiamo ogni stagione di fare un passo in più. Siamo felici, immensamente felici di essere qui e raccontare una storia italiana: l’opera e la moda che fanno parte del nostro DNA». Altro coup de théatre alla fine, quando il palco si alza e porta in superficie tavole imbandite per il pranzo mentre il sovrintendente alla Scala, Alexander Pereira, tuona: «E ora non potete continuare dirmi di no: dovete disegnare gli abiti per un’opera. Già tre volte ve l’ho chiesto». La risposta è sempre la stessa: «Siamo stilisti e non costumisti». Perché non entrambi?