La Stampa, 7 dicembre 2019
Biografia di Dodi Battaglia raccontata da se stesso
Di stare lontano dal palco non ci pensa proprio, e nemmeno di lasciare la chitarra appoggiata al muro. Non lo ha fermato neanche il punto che è stato posto a chiusura della storia dei Pooh. Dodi Battaglia continua a portare dal vivo la sua musica, girando l’Italia, data dopo data, indifferente al tempo che passa. Il primo giugno ha tagliato il traguardo dei 68 anni, poco dopo aver chiuso la prima parte del tour Perle, che è ripartito a novembre e che venerdì 13 farà tappa al Teatro Italia di Roma.
Invece di stare comodamente a casa a godersi i proventi di una vita di successi, lei prosegue instancabile l’attività live. Cosa la spinge?
«Premessa: quando i Pooh hanno deciso di chiudere la carriera del gruppo, io non ero d’accordo. Oggi ovunque vada mi chiedono tutti la stessa cosa: "Perché vi siete sciolte?". E siccome vox populi vox dei, ecco la conferma che abbiamo sbagliato. Io avrei preferito rendere grazie alla nostra storia e ai nostri fan e continuare. Nel 2016 l’idea di Roby Facchinetti e Red Canzian era di fare i solisti. Ma come, non bastava un Riccardo Fogli? Così, un po’ a malincuore, anche io ho intrapreso la carriera da solista. Vediamo che succede, mi ero detto».
E cos’è successo?
«È successo che ho venduto un sacco di dischi, ho fatto sessanta concerti per ogni estate e ho proseguito a suonare anche d’inverno. La gente mi vuole bene e trovo piazze con dieci-quindici-ventimila persone osannanti. Quando vedo questa accoglienza, l’appagamento è tale che credo non ci sia nulla di meglio: dai, noi che facciamo questo mestiere siamo tutti un po’ egocentrici».
Davvero non c’è nulla di meglio?
«Oddio, magari arriva Paul McCartney che ha bisogno di un chitarrista e può essere che mi diverta anche di più. Anche se non ci sono più i grandi palchi dei Pooh, con tutte quelle luci, mi godo gli aspetti positivi: gli applausi sono tutti per me e non devo dividerli per quattro. Tour e scaletta: gestisco tutto io. Mi prendo gli onori e gli oneri. Sempre meglio che tornare tutte le sere a casa e vedere la vicina coi bigodini in testa. Non ho studiato tutta la vita per essere popolare? Ecco, fatemi fare quello popolare».
È soddisfatto della musica fatta con i Pooh?
«Da quando, col tour Perle, ho deciso di portare in teatro i brani meno eclatanti e riascoltato con attenzione la nostra produzione, posso dire che abbiamo scritto pagine della musica italiana di grandissimo spessore. Anche grazie ai testi poetici di Valerio Negrini. Ogni volta che mi è capitato di incidere per altri, come Vasco Rossi, Mia Martini, Massimo Ranieri, Zucchero… o di suonare con Tommy Emmanuel, Al Di Meola, Eric Clapton, è stato stimolante e un grande orgoglio, ma i Pooh sono stati la mia famiglia. Non è un caso se oggi ho la scrivania colma di cd di nuove band che vorrebbero che suonassi con loro».
La critica musicale non è stata molto generosa con voi. Il successo di pubblico ha compensato questa mancanza?
«Col tempo, dopo gli anni Settanta, anche la critica più militante si è ricreduta e ha fatto pubblica ammenda. Ci ha rivalutati. Anche se noi già all’epoca avevamo trattato di temi come la diversità, penso a Pierre. E quando cantavamo Pensiero ("quella notte giù in città non c’ero") parlavamo di una persona incarcerata ingiustamente. Ma anche Piccola Katy trattava il tema delle fughe adolescenziali da casa».
«Parsifal» del 1973 è il vostro album migliore?
«È il disco che ha fatto vedere che non eravamo il classico complesso beat. Abbiamo fatto vedere che i Pooh, che sono stati sempre autori e compositori, non erano solo quelli commerciali di Piccola Katy, Pensiero e Tanta voglia di lei. È stato il colpo di classe che ci ha fatto distinguere. Il "solo" di chitarra della suite Parsifal è ancora oggi uno dei simboli del chitarrismo italiano».
Nel 1986 la rivista Stern la nominò miglior chitarrista d’Europa, titolo ribadito anche in Italia. Non capita mica a tutti.
«Non so dire se sono il migliore, il mio merito è avere sviluppato una maniera italiana di suonare la chitarra elettrica. Ho posto l’accento sulla melodia. Ho resa popolare la chitarra elettrica, tanto che la Fender ha venduto migliaia di esemplari del modello prodotto sulle mie specifiche».
Si esercita ancora?
«Quando non sono in tour almeno due ore, perché c’è sempre da imparare. Anche alla mia età. La mia casa è cosparsa di chitarre, così ogni volta che ho voglia… Ho iniziato a suonare che avevo cinque anni e non ho più smesso. La verità è che vengo pagato per fare una cosa che farei anche gratis».
Ma una bella scazzottata tra i Pooh non c’è mai stata?
«No no no. Una delle grandi fortune, oltre al talento e alla tenacia, è stata di essere quattro persone perbene ed educate. Abbiamo anche imparato ad essere rispettosi l’uno con l’altro, altrimenti avremmo fatto la fine di quei gruppi che si sciolgono dopo una manciata di anni. Si può essere amici per sempre e allo stesso tempo pensarla diversamente. Io sono di Bologna, Facchinetti di Bergamo, D’Orazio di Roma, Canzian di Treviso, il manager di Napoli: i Pooh sono stati l’Italia. Come dice Fiorello, non c’è Comune in Italia in cui non abbiamo suonato. Dove ci hanno chiamati, noi siamo andati. I Pooh non sono mai stati fighetti».