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 2019  dicembre 07 Sabato calendario

Sinead O’Connor torna a cantare. Intervista

«Forse non dovrei parlare con lei», gracchia al telefono con voce seccata. «E perché mai? Abbiamo un appuntamento». «Perché sto scrivendo un’autobiografia che uscirà alla fine del 2020, se incomincio a regalare scampoli di ricordi il libro diventerà inutile», bofonchia Sinéad O’Connor, la cantante irlandese che domani compie 53 anni. Negli ultimi 25 ha riempito le cronache con i suoi gesti clamorosi: la foto di Papa Giovanni Paolo II strappata in tv, ordinata sacerdote da un movimento cattolico indipendente, quattro figli da quattro uomini, l’isolamento a causa del disturbo bipolare, le minacce di suicidio, poi nel 2018 la conversione all’Islam. «Su questo ho già detto tutto, anche troppo», taglia corto. Ora è impegnata in un tour che a gennaio toccherà anche l’Italia (16 Pordenone, 18 Parma, 19 Torino). «Non lavoro da cinque anni, sto cominciando ora a scrivere nuove canzoni. Ormai ascolto solo canti, di qualsiasi natura, indù, gregoriani, islamici. Musiche di pace, sono diventata vecchia».
Perché ha deciso di tornare a cantare?
«Perché mi fa felice, quando lavoro dimentico i problemi. La routine dei concerti può essere faticosa a volte, ma alla fine è la parte meno stressante del mio lavoro. Lavorare accresce l’autostima, è un buon antidoto alla solitudine».
Cantare era un sogno che coltivava fin da bambina?
«No, da adolescente. Avevo 14 anni quando ho cominciato. Lo facevo anche prima, ma non credevo che sarebbe diventato un lavoro. A casa successe un pandemonio quando comunicai la decisione. A mio padre per poco non venne un infarto. Mia madre è morta nel 1995, lui invece è vivo e vegeto e continua a dire: "Avresti dovuto seguire i miei consigli e trovarti un lavoro serio"».
Il successo di "The lion and the cobra" (1987) cambiò la sua vita. Un carico di responsabilità che non si aspettava?
(Esita molto prima di rispondere) «Lo dico col senno di poi, fu un peso troppo grande per una ragazza di vent’anni. L’ho capito crescendo, ora saprei come affrontare la situazione, all’epoca ero molto naïve».
"Nothing compares 2 U" la trasformò in una star mondiale…
«…Divertente, per un momento. Ma poi… quanta solitudine c’è dietro a un successo! Fu grandioso, ma anche un’esperienza molto alienante, mi scaraventò in una sorta d’isolamento di cui ancora porto i segni».
Le situazioni più divertenti?
«I concerti. Capii subito che l’artista si realizza pienamente solo sul palco, tutto il resto non è piacevole: le beghe legali, i contratti, persino le lunghe sedute in sala di registrazione».
La sua interpretazione di "Nothing compares 2 U" è magnifica; Prince avrebbe dovuto esserle riconoscente a vita.
«Al contrario, non si è mai fatto vivo, neanche una parola».
Neanche quando vi siete incontrati?
«No. Fu tutt’altro che gentile e affettuoso».
Dopo le prime hit prese lezioni di bel canto. Si sentiva insicura?
«No, ma non mi sentivo me stessa.
Non ero libera di esprimermi; troppe volte mi avevano detto "cerca di fare come questa o quella", e io non volevo essere nessun’altra. Quelle lezioni hanno "liberato" la mia voce».
Dopo ha potuto cantare qualsiasi cosa, da "Sacrifice" di Elton John a "You do something to me" di Cole Porter e "War" di Bob Marley.
«Sì, ho smesso di fare la prostituta della canzone. Ho scelto io cosa eseguire e come».
Si è sentita incompresa o sottovalutata dalla discografia?
«Entrambe. Ma la cosa più devastante è l’attenzione che ti costringono a dedicare all’aspetto commerciale del tuo lavoro. Detesto tutto quello che gira intorno alla musica, anche perché sono totalmente incapace di gestirlo».
Il momento più difficile?
«L’ostracismo che ho subìto dopo aver strappato in diretta tv la foto di Giovanni Paolo II».
Lo rifarebbe?
«In quel momento era giusto».
Un artista, per essere tale, deve agire in assoluta libertà. Almeno questo le è stato concesso?
«Certamente, attraverso le canzoni; libera di scegliere e di esprimere i miei sentimenti, di raggiungere emotivamente il mio pubblico. Ma poi, andiamoci piano, non è detto che un cantante pop sia un artista. Il dovere di un artista, secondo me, è quello di creare un dibattito su vari temi di attualità. A me sembra che la maggior parte dei cantanti pop, oggi, dibatta solo su sé stessa».
Joni Mitchell ha detto spesso che nel music business le donne non hanno pari opportunità. È così?
«Ora no, ma certamente sì quando ho esordito io. Pretendevano che fossi femminile al massimo, che mi comportassi in maniera seducente, un concetto che ho fatto sempre fatica ad afferrare. Ne scrissero di tutti i colori sulla mia testa rasata: perché volevo mortificare la mia bellezza, perché avevo paura della mia femminilità, ecc. Lo star system è sempre stato malato e, spesso, feroce con le donne che non soddisfano certi requisiti. Oggi è anche più ripugnante, è stata sdoganata l’idea che si diventa famosi anche senza saper far nulla. A questo punto non so esattamente in quale categoria sono stata relegata».
Cosa le fa più paura?
«Che tutto dipenda dal denaro.
Vagheggio un’epoca in cui il denaro possa essere eliminato e gli esseri umani vivano dello stretto necessario. Ogni volta che sono costretta a mischiare musica e business mi sento di merda».