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 2019  dicembre 07 Sabato calendario

Memorie di Chernobyl

C’erano boschi intorno alla centrale e alla città di Chernobyl, alberi d’alto fusto che si stendevano oltre lo sguardo. Sono stati abbattuti dopo l’incidente. Il legname è stato caricato su camion, partiti alle prime luci dell’alba verso fabbriche di mobili in Spagna o in Italia. Si tratta di materiale contaminato, ma solo se brucia è pericoloso. Soltanto così libererebbe il veleno che ha dentro. Solo se brucia è pericoloso. È una frase da tenere a mente, da scrivere sui cartelli. Vale per un reattore nucleare, per un dolore, per un ricordo: solo se brucia è pericoloso. Trentatré anni dopo siamo davanti alla cenere, ma siamo tornati a Chernobyl. Disse, troppo più tardi, l’allora segretario generale del partito comunista Michail Gorbaciov che lì, non al Muro di Berlino e non nella dacia di Viskuli, era finita l’Unione Sovietica. I luoghi non sono mai muti, mai totalmente desertificati. Suscitano echi, recano tracce: anche la loro trasformazione è una testimonianza. Per questo tornare a Chernobyl ha un senso e per questo tocca a una lente non deformante come quella dell’ufficialità e più potente del giornalismo quand’anche indipendente. Tocca alle arti: al cinema e alla letteratura.
Dopo alcuni tentativi dall’esito incerto, la macchina da presa ci ha consegnato un risultato notevole nella forma di una serie televisiva cruda e olivastra, intitolata semplicemente Chernobyl, basata non a caso sulla Preghiera di Svetlana Aleksievic, il più profondo tra i libri-reportage sull’argomento. In entrambi i casi è stato adottato un approccio etico e compassionevole. Si è utilizzata come torcia nel buio la coscienza. Il panorama è rimasto sullo sfondo, presente, ma non protagonista. Ora la scena sgombrata prende il sopravvento e si offre come possibile chiave d’interpretazione: la storia è quel che rimane. E allora bisogna farsi accompagnare laggiù da chi conosce i percorsi e gli effetti. Il nome del posto non è più Chernobyl, non è più Prypjat, non è Ucraina né Bielorussia: è la Zona. Per intero: la Zona di esclusione, un territorio grande come una piccola nazione recintato per tenere fuori, essenzialmente, la vita. Perché la Zona è morta, è un esperimento fallito, la capitale dell’oblio, «l’amara sbornia della realtà dopo anni di sogni». Queste ultime parole sono di Markiyan Kamysh, autore di Una passeggiata nella Zona, best seller in Ucraina e ora tradotto da Keller. Personaggio forte, Kamysh. Si autodefinisce «coetaneo dell’incidente». In realtà è nato due anni dopo, ma suo padre è stato uno dei liquidatori, uno degli uomini chiamati a chiudere la pratica, limitare i danni per gli altri e assumerli su di sé: è morto nel ’99 per le conseguenze delle radiazioni. Kamysh è dunque cresciuto con Chernobyl più che alla finestra, dentro casa. È diventato uno degli illegali che la frequentano regolarmente, più di 100 spedizioni, oltre un anno dei suoi 31 passato tra sciacalli, metallisti, drogati e disperati, tra case diroccate, laghi marroni, bus capovolti, «squallide nature morte della felicità rubata di rovine abbandonate». A ubriacarsi, ad ammalarsi, a scaldarsi con lupi morti che «odorano di tiramisù», a praticare il «feticismo della radioattività come supremo rituale di iniziazione per la casta dei cretini». Kamysh accompagna nella Zona giornalisti eccitati e hipster annoiati. Detesta gli uni e gli altri. Biasima la scenografia dell’orrore.
In una intervista ha raccontato che una vecchia, uno dei 100 abitanti rimasti nella Zona, ricevuta l’ennesima troupe che l’aveva preparata per l’intervista sensazionalista, prima di cominciare si è alzata e ha sistemato le luci ai tecnici, avendo ormai acquisito esperienza superiore a ogni novizio di quel luogo.
Per Kamysh la Zona è il domicilio eletto. Va oltre i villaggi fantasma, continua a rovistare nel nulla perché lo fa dentro se stesso. Maledice questa calamita scrivendo: «Voglio che tutto questo scompaia per vederne le foto e non provare nessuna nostalgia». Eppure torna. E rimpiange la ciminiera caduta e ammira il secondo sole specchiato sul sarcofago e sente sulla pelle 2 rontgen (l’equivalente di centinaia di radiografie). La Zona è la sua droga. Fa bene perché fa male, è maledetta perché irresistibile. Dà, per un breve, ingannevole, ma altrimenti inarrivabile momento, quel che il mondo inclusivo nega: la pace. Quando entra la luce nella chiesa di Krasno, quando sui metalli contaminati piovono gocce come in una composizione di Satie, quando le antenne svettano come torri Eiffel moltiplicate: la pace. Se solo Kamysh non ci affliggesse con un linguaggio pulp di ritorno, con «il pulotto che ti crista dietro», «il mese di inculaio» e altre nequizie, ci faremmo accompagnare più piacevolmente da lui.
Non occorre troppa psicologia per capire che cosa cerca. La fine del suo viaggio è nella chiesa abbandonata, nella solitudine forzata, nella cancellazione autoimposta della memoria: «la candela si accende una volta sola, quando qualcuno muore. Poi si dimenticherà tutto. Addio». Addio ai padri, ai loro sogni sbagliati, ai sacrifici resi necessari dai loro stessi errori. Addio alle ideologie, avanti questo inverno senza fine. La candela brucia: è pericoloso.
Quando la centrale esplose, in molti si radunarono sul ponte e osservarono le fiamme trovandole bellissime, giocarono con la cenere come fosse neve. Non uno di loro è sopravvissuto. Quando guardiamo senza capire, o pensiamo sia più importa nte guardare che capire, non abbiamo altro destino.