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 2019  dicembre 07 Sabato calendario

Consumare, cioè distruggere

Wolfgang Schivelbusch è uno studioso tedesco. Per chi non lo conosce, dirò che si può paragonare a Walter Benjamin. Nato nel 1941 a Berlino, ha trascorso gran parte della sua vita a New York, e qualche anno fa è ritornato nella sua città. A differenza di Benjamin, Schivelbusch ha potuto godere di settanta anni di pace, senza dover fuggire davanti al nazismo trionfante perché ebreo, anche se poi, come Benjamin, non ha mai avuto la vita facile in accademie e università. Per questo si è conservato un pensatore originale. Chi ha letto i suoi libri – Storia dei viaggi in ferrovia, dedicato al cambiamento della percezione visiva con l’introduzione del treno, Luce. Storia della illuminazione artificiale nel secolo XIX, dove spiega l’impatto dell’illuminazione nelle città, o Spezie, caffè, cioccolato, tabacco, alcol e altre droghe, libro innovativo —, sa quante e quali idee frullino nella testa di questo pensatore. Oggi viene tradotto La vita logorante delle cose. Saggio sul consumo ( tr. it. di R. Paltrinieri, Franco Angeli). Non è la solita storia del consumo. Mette piuttosto a tema una questione fondamentale sin qui elusa: il consumo non è che l’incontro fisico dell’oggetto consumato con il soggetto consumatore, così che l’uno logora l’altro. Detto così suona sconcertante. Tuttavia basta scandagliare il significato del verbo latino consumere, come fa Schivelbusch, per capire che indica «come il combustibile venga divorato dal fuoco e il cibo dagli organismi viventi». L’economia politica classica, da Adam Smith a Marx, definisce infatti il consumo come distruzione. Oggi che lo svuotamento della realtà effettuato dal digitale rende questo fatto a un tempo antiquato e insieme attuale, la domanda da porsi è: «come si compie davvero il consumo delle cose da parte dell’uomo?». Nella nostra età, definita oggi Antropocene, in cui la comparsa dell’uomo ha profondamente modificato l’ambiente sino al punto da far collassare il Pianeta, quanto questo libro può aiutarci? Diciamo subito che non è un saggio facile, perché il percorso che compie parte dal mondo greco, da Eraclito, passa per il Seicento, per l’alchimia, gli economisti fisiocratici francesi, approda a Marx e va oltre. Richiede pazienza e attenzione come tutti i libri importanti. Per farmi capire, parto da una lettera citata nel volume di Flaubert a Louise Colet, in cui parla dei suoi stivali. La sola vista di un paio di stivali, scrive il romanziere, gli appare molto malinconica, quando pensa a tutti i passi che ha fatto lì dentro, alle erbe che ha calpestato, al fango che ha raccolto. Le scarpe hanno interessato non solo Flaubert, ma anche Van Gogh e Heidegger, che delle scarpe da contadino del pittore ha scritto. Usare le cose equivale a logorarle. Cosa vuol dire tutto questo? Schivelbusch esplora i concetti elaborati nel corso dei secoli per indicare il consumo e il disfacimento. Marx è stato ossessionato dal problema dell’identità tra consumo e produzione; scrive nei Grundisse, che il Capitale «consuma i suoi elementi materiali, il suo oggetto e il suo mezzo; se ne nutre; quindi è un processo di consumo». Qui il termine acquisisce il valore distruttivo che ha in origine, tanto che Joseph Schumpeter, uno dei grandi economisti, ha potuto parlare del capitalismo come «distruzione creatrice». Oggi siamo consapevoli che si effettua un consumo distruttivo della Natura stessa attraverso la produzione. Come stanno insieme le due cose? Esiste una produzione che non consuma? Il tema ecologico aleggia nel fondo di questo libro che non dà risposte, ma si pone il compito di mostrare i problemi, metterli in luce, lavorando sul modo con cui è stato pensato, ad esempio, il lavoro, oppure il valore d’uso e quello di scambio. Ora che tutto sembra affidato alla distribuzione, che ne è della produzione? L’uomo più ricco del mondo è un signore che ha elevato con Amazon la distribuzione a forza stessa del sistema capitalistico. Non è un caso. Si leggano le righe in cui Schivelbusch descrive l’arrivo delle scatole di Amazon, e come vengono aperte. Oggi il consumismo non definisce più il valore d’uso, ma il prestigio, la moda e il valore simbolico delle cose, è il vero erede della funzione ornamentale dell’oro e del denaro, così che ogni atto di consumo, conclude l’autore, come il pane e il vino dell’Ultima Cena promettono la liberazione. Fino a quando?