La Stampa, 6 dicembre 2019
Lo Stato azionista non risolve i problemi dell’Ilva
Nel nuovo piano industriale di Mittal resta un drastico ridimensionamento dell’organico. Il governo reagisce annunciando un nuovo piano, suo, per Ilva e adombrando l’ingresso dello Stato nel capitale. Siamo tornati punto e a capo, come all’inizio delle trattative con l’azionista franco-indiano.
Domina, oggi come ieri, l’incertezza. E l’impressione è che le dinamiche alle quali ci ha ormai abituato la politica italiana - il dibattito permanente, la continua riproposizione degli stessi temi, l’esibizione di buone intenzioni sempre destinate a impantanarsi - siano perfette per l’industria dei talk ma non per risolvere problemi concreti.
L’Ilva è al centro della politica nazionale dal 2012. L’indagine per disastro ambientale ha costretto tutti i governi, da allora in poi, a tentare di salvare lo stabilimento di Taranto. Decreti «salva-Ilva», amministrazione straordinaria, stanziamenti per garantire la prosecuzione delle attività sono stati all’ordine nel giorno. Carlo Calenda, ministro con Paolo Gentiloni, riuscì a condurre in porto una gara, vinta da Arcelor-Mittal. Il 23 ottobre scorso il Senato vota per togliere lo «scudo legale» agli amministratori, che era parte integrante dell’accordo che ha portato i franco-indiani a prendersi la responsabilità dello stabilimento tarantino. Per alcuni i nuovi azionisti cercavano solo un pretesto per fare marcia indietro. Fatto sta che il pretesto è stato servito loro su un piatto d’argento.
Mentre governo e Mittal trattavano, due procure (Taranto e Milano) hanno aperto indagini sulla gestione dell’azienda. Mettiamoci nei panni di un ipotetico investitore estero. Il sistema-Italia non riesce a venire a capo della principale crisi d’azienda del Paese. Pare patologicamente incapace di mantenere la parola data, cambia le regole a partita iniziata. Questo non solo provoca l’irrigidimento della controparte ma fa sì che questa alzi il tiro, nelle sue richieste. A fronte di rischi maggiori, si chiedono garanzie maggiori.
Siccome il rischio per antonomasia è rappresentato dalla volubilità della politica e dalla conseguente incertezza del diritto, ci si aspetterebbero parole chiare proprio su quel tema. Abbiamo per capo del governo un professore di diritto privato, la cosa dovrebbe aiutare. Invece si tira fuori dal cilindro, spiegando che più di una decisione sofferta si tratta di un’opportunità a lunga attesa, l’opzione del ritorno in mano pubbliche, con un veicolo da identificare.
In che senso il ritorno dello Stato azionista dovrebbe risolvere i problemi dell’Ilva? Per quale ragione ne garantirebbe una buona gestione? Quale manager, per quanto scelto dal governo, manterrà in funzione gli altiforni senza uno scudo che lo tenga indenne da sanzioni penali per la violazione di norme ambientali? Quello scudo era stato introdotto quando l’azienda era gestita da commissari di nomina pubblica. Nello stesso periodo di gestione commissariale, come ha ricordato più volte Marco Bentivogli della FIM Cisl, gli infortuni sul lavoro sono aumentati.
E’ normale che i politici producano promesse. Ora promettono che faranno dell’Ilva un’industria all’avanguardia, green, un innovatore di primo piano in Europa e nel mondo. Sono cose bellissime, ma che richiedono grandi investimenti e grandi capacità manageriali. Coi soldi pubblici arriveranno gli uni e le altre?
Lo Stato in Italia gestisce tante cose. Se pensate a un aggettivo per definire l’esperienza che avete con servizi gestiti dallo Stato, è improbabile che il primo che viene alla mente sia «impeccabile». Ci viene chiesto di credere che a Taranto le cose andranno diversamente. Ma perché dovrebbero?