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 2019  dicembre 06 Venerdì calendario

L’imprevedibile Dante

Le Rime di Dante non sono una raccolta pensata e ordinata dall’autore come libro a sé, ma sono un insieme di canzoni, sonetti e ballate che il poeta scrisse nel corso di oltre un ventennio (dal 1283 circa). Alcune (31) vennero inserite e commentate nella giovanile Vita nuova, altre (tre canzoni) nel Convivio, il trattato rimasto incompiuto. Una settantina sono i componimenti «dispersi», che rimangono come «residui» vaganti e non utilizzati per progetti più ampi (Contini parlò della «più superba collezione di estravaganti»). A differenza del Canzoniere di Petrarca, racconto organico dell’avventura di un’anima, si tratta dunque di un corpus non omogeneo e molto variegato, che diversi editori e studiosi (a partire dal Cinquecento) hanno messo insieme ciascuno a suo modo cercando di dargli una coerenza cronologica e/o tematica sempre discutibile e un po’ forzata. Qualcuno continuando a pensare che Dante in qualche modo ne volesse fare un’opera autonoma. Una tappa importante sulla via della ricostruzione testuale delle Rime fu l’edizione approntata nel 1921 da Michele Barbi, il quale sotto quel titolo riunì non solo le poesie «disperse» ma l’intera produzione lirica di Dante, compresi i versi inseriti nella Vita nuova e nel Convivio. È la stessa soluzione «totale» proposta, con Enrico Malato, da Donato Pirovano e Marco Grimaldi nella edizione commentata della Necod: un primo tomo apparso nel 2015 conteneva Vita nuova e altre rime pressoché coeve; il secondo tomo esce adesso con le rime successive, cioè quelle della maturità e dell’esilio, a cura del solo Grimaldi.
Fatto sta che, al di là delle discussioni filologiche su cui si sono accapigliati fior di studiosi, dalle Rime emerge un filo conduttore prepotente della produzione dantesca: l’instancabile sperimentalismo dell’Alighieri, cioè quello che è stato definito come un «processo di inquietudine permanente» espresso attraverso scelte lessicali, stilistiche, metriche e tematiche sempre nuove, a volte coesistenti e contraddittorie. Le Rime, specie quelle della maturità, offrono un repertorio impressionante degli interessi, delle curiosità e del virtuosismo formale dantesco: senza dimenticare, come sottolinea Grimaldi, che la lirica medievale comprendeva già in sé una varietà tematica e formale, ereditata da trattatisti come Isidoro di Siviglia e Ugo da San Vittore, e lontana dal paradigma moderno della poesia soggettiva e interiore.
Il filone dominante è quello amoroso, declinato nei modi più vari: e contempla i testi scritti per il libello autobiografico della Vita nuova, prima tappa significativa dell’apprendistato stilnovistico, ma anche una trentina di poesie occasionali dedicate a donne diverse da Beatrice (Violetta, Fioretta, Lisetta). Sempre nel solco amoroso, alle «dolci rime d’amore» in lode della donna e della sua bellezza angelicata e salvifica, si aggiungono negli anni più maturi componimenti di tenore completamente diverso: sono le celebri «rime petrose», quattro canzoni composte poco prima dell’esilio, tra il 1296 e il 1298, che raccontano la passione disperata e violenta per Pietra, ovvero per una donna dura e fredda come la pietra, sulla cui identificazione biografica si sono concentrate invano le attenzioni degli studiosi ottocenteschi. In realtà Pietra è l’epiteto o il soprannome attribuito a una figura simbolica femminile che «d’ogni crudeltà si fece donna» e a cui si addice un linguaggio oscuro, sensuale e aspro (famoso l’incipit-manifesto «Così nel mio parlar voglio esser aspro / com’è ne li atti questa bella petra»). Alla asprezza del contenuto corrisponde un’asprezza espressiva il cui acceso realismo anticipa lo stile infernale e che viene affidata soprattutto ai vocaboli «irsuti» in rima (aspro / pietra / impetra / cruda / diaspro…). Da una parte il poeta «dolce» e solare di Tanto gentile e tanto onesta pare, dall’altra questo Dante sofferente, amaro, arrabbiato.
Si diceva dello sperimentalismo stilistico. «Sul piano metrico-formale – scrive Grimaldi – il punto più elevato è raggiunto dalla sestina Al poco giorno, che introduce in volgare italiano una particolare forma trobadorica…», quella inventata dal provenzale Arnaut Daniel (sei stanze ciascuna composta da sei versi): il genio di Dante consiste nel prendere materiali dalla tradizione vecchia e nuova riutilizzandoli a modo suo, imprevedibile. Ma c’è anche uno sperimentalismo tematico nello spingere all’estremo moduli e visioni preesistenti. Grimaldi ci ricorda che se la metafora della pietrificazione è diffusa nel Medioevo e l’ipotesi del cuore come pietra è già presente nei poeti provenzali, Dante finisce per trasformare quell’ipotesi in realtà: «La donna delle “petrose” è realmente “di pietra”, è “fatta di pietra”». È apprezzabile il movimento argomentativo che Grimaldi segue nei cappelli introduttivi dei diversi nuclei poetici, accompagnandoci dalle questioni generali (adatte ad avvicinare il lettore non necessariamente esperto) agli aspetti più tecnici e specifici. Tra questi ultimi viene più volte discusso in termini critici il presunto «libro delle canzoni»: una serie di 15 componimenti che alcuni studiosi, sulla base di una suggestione di Domenico De Robertis, vorrebbero come una sorta di piccolo canzoniere d’autore simile a quello petrarchesco. È sempre difficile, di fronte a Dante, rassegnarsi all’insufficienza di elementi certi che diano un senso coerente alle opere in relazione alla vita. Si ha sempre l’impressione che il Sommo Poeta sfugga alle certezze troppo pacifiche.
Ciò non esclude che, nella generale difformità, siano possibili vicinanze tra componimenti che hanno avuto una diffusione comune, tra alcuni che si collegano e si rimandano a vicenda, tra altri ancora che sono frutto di un’analoga ispirazione (le «petrose») o che furono senza dubbio realizzati nella stessa occasione. Tra questi va annoverata la spettacolare Tenzone con Forese Donati, precedente il 1296 (anno della morte di Forese), che si colloca nel filone comico-realistico: anche le tenzoni, cioè lo scambio di botte e risposte in rima, erano un genere praticato dai trovatori quale occasione per accuse e insulti reciproci magari pronunciati in pubblico per esibizioni ludico-teatrali. È un modulo poetico che, tradotto in forma privata, si diffonderà in Toscana con poeti come Rustico Filippi e Cecco Angiolieri. Ma se la corrispondenza tra Dante e il nobile fiorentino Donati si avvale di un collaudato registro tematico (sesso, gola, denaro, famiglia, onore), lo risolve con una violenza di minacce e di improperi che ha pochi equivalenti nella letteratura italiana. Grimaldi distingue, nel canone medievale, tra l’invettiva e la satira: la prima mira al vituperio gratuito e all’offesa cattiva, la seconda al rimprovero graffiante allo scopo di correggere i vizi dell’avversario. I tre sonetti danteschi della Tenzone sono insieme le due cose: vituperio e satira ad altissima temperatura. La prima accusa è un’allusione alla moglie di Forese, insoddisfatta del marito per motivi economici ma anche per le sue scarse doti sessuali; la risposta è un richiamo al padre di Dante, Alighiero, sognato da morto avvinto da un nodo misterioso (segno di una colpa da usuraio o di un torto non vendicato dal figlio vile); Dante, additato quale mendicante sfruttatore dei beni della moglie, replica riversando su Forese l’accusa di essere un ladro, uno scialacquatore, un goloso e un debitore, forse persino un figlio illegittimo di famiglia promiscua e incestuosa… Niente di più diverso, questo Alighieri, dal maestro della canzone morale, il poeta dall’animo nobile e colmo di virtù proiettato verso la sottigliezza filosofica che troveremo all’altezza del Convivio.
Restando a Forese, va ricordato che il personaggio ritorna nel XXIII del Purgatorio, girone dei golosi, affettuosamente dialogante con Dante: l’episodio è una sorta di «palinodia», secondo Grimaldi, cioè di ritrattazione nella quale i due fanno reciproca ammenda di una comune esperienza passata. Soccorre ora, per una lettura convincente e molto attenta non solo del canto in questione ma in generale della seconda cantica, il commento a cura di Saverio Bellomo e Stefano Carrai appena uscito da Einaudi («Nuova raccolta di classici italiani annotati»). Sul modello sperimentato da Bellomo per l’Inferno (apparso nel 2013), il commento, purtroppo interrotto dalla morte precoce del primo curatore e completato da Carrai per gli ultimi tre canti, mantiene tutti i pregi di quel primo volume: sobrietà della notazione, ma soprattutto una discorsività nei cappelli iniziali e conclusivi di ogni canto, capace di sciogliere questioni complicate e di offrire chiavi di lettura inedite. «Sospetto – scrive Bellomo – che le stesse manifestazioni di reciproca amicizia da parte di Dante e di Forese, in questo canto e anche nel successivo, così intense da spingere alcuni critici a vedere appunto in questo sentimento la cifra dell’episodio, siano invece il rovesciamento della inimicizia probabilmente altrettanto affettata nella tenzone». Tanto benevoli qua, quanto ostili là, quasi a rimediare all’antica ferocia. L’eco di quello scambio, legato alla volgarità e all’insulto gratuito, impone al Poeta il pentimento (e forse la vergogna al cospetto di Virgilio) per quelle ingiurie che non erano dettate da odio quanto da un intento giocoso forse sfuggito di mano.