Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2019
Pelliccia, vera o sintetica: qual è più eco?
Per gli antichi romani Giano bifronte era il dio dai due volti: uno rivolto al passato, uno al futuro, ma appartenenti alla stessa persona. Anche per l’industria delle pellicce il 2020 sarà un anno bifronte, e non solo dal punto di vista numerologico: sarà quello in cui Prada si unirà alla lunga lista di marchi che hanno scelto di non usare più pellicce naturali, ma anche quello in cui proprio quest’industria lancerà Furmark, primo programma di certificazione e tracciabilità globale. E anche quello in cui Stella McCartney presenterà i primi capi in pelliccia fatta di plastica di origine vegetale.
Questa battaglia fra pelliccia naturale e sintetica impegna da almeno 25 anni il materiale più antico di cui si sia vestito l’essere umano. E al momento la vittoria sembra appartenere alla seconda, sostenuta dalla convinzione – sempre più condivisa dai marchi della moda, dal lusso al fast fashion -, che sia più sostenibile. Tanto che, se in inglese è definita “faux fur”, in Italia si chiama “pelliccia ecologica”.
Il numero di marchi che si dichiarano “fur free” è in costante ascesa, come i numeri dell’industria della pelliccia sintetica: secondo Technavio crescerà in media del 19% annuo fra 2019 e 2023, fino a 129 milioni di dollari. Dall’altra parte, il calo dell’industria della pelliccia naturale, dai 40 miliardi di dollari del 2015 ai 33 del 2018, secondo le stime dell’International Fur Federation (Iff), che raccoglie 56 membri di 40 Paesi e che sta cercando di parare i colpi del movimento globale anti-pellicce. Iniziando a giocare proprio sul loro stesso campo: «Stiamo per lanciare campagne per evidenziare i vantaggi dell’acquisto di pellicce naturali – spiega Mark Oaten, ceo di Iff -. Mentre il dibattito sulla sostenibilità nella moda cresce sempre di più, le persone stanno ripensando alle pellicce sintetiche come un’alternativa altamente inquinante rispetto a quelle naturali».
Nel 2018 i produttori di pellicce “vere” hanno commissionato all’azienda di biotecnologie belga Ows uno studio per misurare la biodegradabilità di diversi tipi di pellicce naturali e non: «Per le pellicce sintetiche il processo non è mai iniziato», la lapidaria conclusione. Sotto accusa è anche l’uso di plastica, materiale oggi nemico di ogni politica di sostenibilità, usata per la produzione di “faux fur”. Eppure, anche l’industria tradizionale è ben consapevole di avere importanti margini di miglioramento. Per questo in Europa sono allo studio nuove e più stringenti certificazioni e regolamenti che riguardano tutta la filiera. Il 2020, come detto, sarà l’anno di lancio di Furmark, programma che rende tracciabile tutte le fasi di produzione, dal welfare degli animali alla tinture. E sempre entro il 2020 le pellicce vendute all’asta in Europa dovranno essere certificate da Welfur, che stabilisce 12 criteri di conformità per allevamenti di visone, volpe e finn racoon.
Ma i produttori di pellicce sintetiche non sono meno innovativi: la pelliccia “ibrida” che sarà usata da Stella McCartney si chiama Koba ed è fatta di Sorona, materiale di origine vegetale brevetto DuPont, e da poliestere riciclato creato dall’azienda francese Ecopel, che sta anche studiando come ricavare energia dalle pellicce sintetiche a fine ciclo di vita. E sul fronte dell’economia circolare, le pellicce naturali rispondono ancora, valorizzando l’upcycling (la vecchia “rimessa a modello”), formula inserita anche da Fendi, maison che ha costruito molto del suo successo sull’arte della pellicce, nella sua più recente collezione couture. «La pelliccia è uno dei materiali più sostenibili di sempre», ha detto Michael Burke, ceo Louis Vuitton, in un’intervista a Die Welt. Scelte e parole che non lasciano dubbi: la battaglia delle pellicce proseguirà ancora a lungo.