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 2019  dicembre 06 Venerdì calendario

Il caso dei resti di Montaigne

Il caso ha tutti gli elementi di un romanzo giallo a sfondo storico. C’è una bara in un sotterraneo. Delle ossa di cui si erano perse da tempo le tracce. E un cadavere di cui si ignora l’identità, ma che si sospetta, con crescente certezza, sia quello di Michel de Montaigne, il grande umanista del XVI secolo. «Si cerca un corpo, degli indizi: il principio è lo stesso di un’indagine della polizia», afferma Laurent Védrine, direttore del Museo dell’Aquitania di Bordeaux. Ma qui il mistero non è chi è l’assassino, né il movente del crimine, ma “chi è il morto o i morti”, aggiunge Védrine. Vi sono indizi abbastanza chiari, ma non definitivi, che si tratti dell’autore dei Saggi.
Il primo mistero – a chi appartengono le spoglie? – è già stato quasi chiarito, ma racchiude a sua volta altri enigmi. Come ha fatto Montaigne, se di Montaigne si tratta, a finire in quella che oggi è la sede del Museo dell’Aquitania? Perché è stato dimenticato, dopo che negli anni Ottanta del XIX secolo fu identificato, trasferito provvisoriamente in un altro luogo e poi riportato qui, nel centro di Bordeaux? A chi appartengono il cranio e la mandibola scoperti vicino alla bara?
«Ho avuto un’intuizione forte, davvero forte», spiega Védrine mentre scende le profonde scale che portano al freddo sotterraneo del museo, oggi usato come magazzino di pietre medievali. In fondo alla sala, c’è una bara di legno nella quale, se si confermeranno i sospetti, riposa lo scheletro dell’inventore del genere letterario del saggio; lo scrittore dell’io, del dubbio, della modestia e della tolleranza; il pensatore che sapeva che «filosofare è imparare a morire». In effetti, per molto tempo si era creduto che le spoglie di Montaigne fossero nascoste in questo edificio. Era una convinzione fondata, perché qui c’era il cenotafio, ovvero il monumento sepolcrale senza la salma, sepolta altrove, di colui che fu sindaco di Bordeaux. Ma nessuno si era preoccupato di procedere a una verifica. Védrine pensò che le spoglie potessero trovarsi sotto lo stesso punto dell’atrio dell’edificio dove un tempo era collocato il cenotafio. Nel magazzino del sottosuolo c’era una piccola costruzione, con due aperture, simili a forni o ai loculi di un cimitero. Era coperta da scaffali con reperti archeologici. Bisognava scoprire che cosa c’era dentro. Per evitare danni, il direttore del museo e la sua équipe fecero un foro nel muro e vi introdussero una telecamera. Era il settembre 2018. «Guardammo nel monitor e vedemmo che c’era una cassa. Un tecnico del museo disse: “C’è scritto qualcosa: Michel de Montaigne"», ricorda Védrine. Esplose l’entusiasmo: eureka! Ma il lavoro non era ancora finito; era solo l’inizio. Per avviare il progetto, bisognava chiedere i permessi per estrarre il contenuto, formare un team di archeologi e specialisti e creare un comitato scientifico.
Passa un anno. Il 18 novembre scorso, Védrine e la sua équipe aprono finalmente la tomba in muratura. In uno dei loculi si trova la bara di legno che avevano già visto un anno prima con la telecamera. Accanto, c’è un cilindro di metallo con dentro una bottiglia e, all’interno della bottiglia, un documento. Nell’altro loculo, un cranio e una mascella. All’apertura della bara esplode il secondo eureka. «Oh, my God», si sente esclamare nel video, in inglese ma con un forte accento francese, uno dei presenti. Si sono accorti che, all’interno della bara, c’è un’altra bara, o più esattamente un sarcofago di piombo, corroso e guastato in diversi punti. Introdotta una macchina da presa, si vede un femore e un osso pelvico.
Il sarcofago di piombo, così come la bottiglia, si apriranno in una fase successiva, all’inizio del 2020. «Spero di trovare l’intero scheletro all’interno», dice l’archeologa antropologa Hélène Réveillas, responsabile dello scavo.
Una volta raggiunte le ossa, si cercherà di determinare il sesso del defunto e la sua età approssimativa. Un altro indizio che potrebbe aiutare a confermare l’identità dello scheletro sarebbe la scoperta di tracce dei calcoli renali che afflissero Montaigne per buona parte della sua vita. È noto che, alla sua morte, la moglie, Françoise de la Chassaigne, ne fece prelevare il cuore. Lo scheletro, pertanto, dovrebbe presentare una cassa toracica segata a tal fine. E si potrebbero vedere le conseguenze di una non metaforica caduta da cavallo, a cui è dedicato uno dei Saggi e che, secondo il critico Antoine Compagnon, «fu la cosa più vicina alla morte che conobbe e fu un’esperienza dolce, insensibile», il che gli permise di dedurre che «non bisogna temere troppo di morire».
L’ultimo elemento è il Dna, ma per questo è necessario trovare dei discendenti diretti. «È un progetto eccezionale, succede molto raramente nella vita di un ricercatore», dice Réveillas. Ed è il culmine di un viaggio iniziato il 13 settembre 1592, il giorno della morte di Montaigne all’età di 59 anni nel suo castello, a 50 chilometri da Bordeaux.
(Traduzione di Luis E. Moriones ©EL PAIS/LENA)