ItaliaOggi, 6 dicembre 2019
Femminicidio, la pena non basta. Parla Irma Conti
Irma Conti è un avvocato penalista cassazionista di Roma. Da quando ha iniziato a esercitare la professione forense, venti anni or sono, lo ha fatto sempre in uno dei più rinomati studi della Capitale, quello di Alessandro Cassiani. Conti, però, è anche una donna molto impegnata contro le violenze di genere. Lo fa anche nel consiglio dell’Ordine degli avvocati della Capitale, in cui è stata rieletta recentemente. Un impegno che le è valso, nel 2014, a soli 41 anni, il titolo di Cavaliere della Repubblica. Le cronache giudiziarie spesso ci mostrano il bel volto di questa abruzzese trapianta a Roma, mentre è impegnata in processi su fatti di dura cronaca, come quello, conclusosi poche settimane fa in Cassazione, all’uomo sieropositivo che ha contagiato, direttamente o indirettamente, 34 persone e conclusosi proprio davanti alla Suprema corte, con la conferma della responsabilità dell’imputato, condannato a 24 anni in primo grado, pena ridotta di due in appello.Domanda. Conti, stabiliamo le regole di ingaggio: avvocato, avvocatessa o avvocata?
Risposta. Come preferisce, non ne faccio davvero un problema linguistico, anche se rispetto chi lo pone e le sue ragioni.
D. Una settimana fa, lei e altre colleghe dell’Avvocatura avete organizzato un convegno molto partecipato, anche da giudici e magistrati, che aveva per titolo: «Obiettivo zero femminicidi». Purtroppo le cronache, anche dei giorni successivi, si sono incaricate di ricordare quanto sia lontano.
R. Lo so, ogni giorno, purtroppo, apprendiamo di nuovi episodi, di nuove morti, per questo non dobbiamo desistere, la Giornata contro la violenza è positiva ma serve a dire a tutti che non è possibile fermarci.
D. Giusto andare avanti, ma come?
R. Innanzitutto però mi faccia dire come qual è il prezzo della violenza di genere.
D. Prego.
R. Eures ci parla di 142 donne uccise nel 2018, ossia + 0,7% rispetto all’anno precedente, 119 delle quali in famiglia (+6,3%).
D. Moventi, quali?
R. Gelosia e possesso sono ancora quelli principali, nel 32,8% dei casi, mentre aumento anche le denunce per violenza sessuale (+5,4%), stalking (+4,4%) e anche i maltrattamenti in famiglia, che hanno registrato un incremento dell’11,7%. Stiamo parlando reati che spesso sono l’anticamera del delitto.
D. C’è da evitare una strage ogni anno.
R. Sì e anche che centinaia di uomini commettano reati che distruggeranno le loro vite.
D. Confesso che non ero preparato a questa notazione.
R. Perché no? La prevenzione vale innanzitutto per le vittime ma è importante anche per i potenziali carnefici.
D. Come prevenire?
R. L’unico strumento è la denuncia, tempestiva, corroborata dagli elementi, in modo da consentire agli inquirenti, all’indagine ufficiale, di intervenire tempestivamente. Non mi stanco di ripeterlo: le donne non devono tergiversare dinnanzi a un episodio grave: quello stalking, quell’atto persecutorio, se non si interrompe, entra in un crescendo che può portare fino all’omicidio.
D. Purtroppo ci sono persone che pensano che il tempo aggiusti tutto. Esitano.
R. Non aiuta il fatto che queste vicende si svolgano in ambito privato, che spesso si sposino le proprie violenze. È così: si pensa che quelle percosse siano legate a un periodo, che non si possa superare una certa soglia. Invece, proprio perché la si è superata, spesso non ci sono più freni. Chi ha fatto violenze, raramente si ferma da solo.
D. Basta il denunciare in modo sollecito?
R. Certo che no. Quella è l’urgenza, è il rimedio ai drammi di ogni giorno. L’altra grande questione è agire su quello che viene prima. Investire sulla parità di genere.
D. La violenza discende da lì?
R. Nel senso che ne è l’ultimo frutto avvelenato. Bisogna investire su tutto quanto la faccia recedere: formazione, cultura, incentivi.
D. Le risorse però non ci sono.
R. Guardi, o le risorse le troviamo o dovremmo continuar a pagare costi enormemente più elevati. Il prezzo della violenza di genere è elevatissimo, si stimano miliardi, dalle cure alle assenze forzate dal lavoro, ai costi legali. Il nodo principale è l’autonomia economica delle donne.
D. Le donne che lavorano si sottraggono alla violenza?
R. Nel senso che sono più libere di reagire e di denunciare. Una donna, in una famiglia monoreddito, magari con figli, dove va? Talvolta sopporta la violenza in silenzio, coi figli che crescono in queste tragedie: a danni si sommano altri danni, che si trascinano in altre vite. Mi creda: la buona politica di genere è anche una buona politica economica e sociale.
D. Si dice che sia soprattutto un discorso culturale.
R. Lo è ma le leve per intervenire sono anche economiche, non ce lo nascondiamo. Sul piano culturale ci metto anche la necessità di creare nelle università studi dedicati alle violenze di genere: bisogna mettere le menti migliori ad approfondire e fare ricerca.
D. Forse se avessimo fatto più studi sulle differenze di genere, negli anni passati, non dovremmo oggi invocare quelli sulle violenze di genere. Non mi ha detto quello che dicono molti: aumentiamo le pene, eliminare il patteggiamento.
R. Perché credo che non sia quello il punto. La pena come deterrente? Ma se molti femminicidi si concludono con il suicidio dell’omicida, che deterrente potremo studiare? E poi…
D. E poi?
R. E poi, sempre sulla pena, glielo dico per esperienza: le vittime vogliono giustizia non vendetta. Le molte donne contagiate che ho rappresentato come parte civile, non chiedevano l’ergastolo, chiedevano che le responsabilità fossero accertate e le pene comminate con giustizia.
D. C’è chi usa anche questi casi per chiedere l’abolizione della prescrizione o comunque del giudizio abbreviato.
R. Guardi che abolire la prescrizione, far continuare i processi in eterno, varrà anche per le vittime, che nei dibattimenti vivono, o rivivono, pagine dolorose. Lo stesso per il giudizio abbreviato: se si imponesse sempre il processo ordinario, per questi reati, dovremmo affrontare anche questa pagina.
D. Lei era appena nata, ma nel 1979, il famoso «Processo per stupro» trasmesso dalla Rai mostrò cosa dovesse scontare una donna, vittima di violenza carnale, dentro un dibattimento.
R. Quello che fece la grande Tina Lagostena Bassi in quel procedimento servì a scuotere le coscienze: oggi quei toni, quelle insinuazioni non si registrano più nelle aule di giustizia. C’è un’altra sensibilità nell’avvocature e nei giudici.
D. E la mia categoria, invece? Che spesso, per il gusto della nera, si lascia scappare espressioni del tipo «l’amava tanto», «il gigante buono»…
R. Anche i giornalisti devono fare la loro parte. La stanno facendo, anche perché trovo sempre più professionisti sensibili e attenti alla materia che trattano. I media, come proprio dimostrò la vicenda dell’udienza di quarant’anni fa trasmessa dalla Rai, sono nevralgici per costruire una cultura diversa.
D. C’è una foto, molto toccante, che la ritrae, alla fine del processo, abbracciare tutte le ragazze contagiate, dopo il verdetto che confermava le accuse. Pareva che la sua toga avvolgesse tutte le sue assistite. Quanto la donna Irma Conti si coinvolge nelle cause che patrocina?
R. Quel caso è stata un’eccezione: si trattava giovani donne che si erano trovate sul baratro della malattia. Vite sconvolte improvvisamente: sì, ho sentito moltissimo i loro drammi e sostenuto, anche umanamente, la loro richiesta di giustizia. Per il resto cerco di essere sempre distaccata dai casi che tratto ma per mantenere tutta la lucidità che serve a fare bene il mio lavoro. Nell’interesse dell’assistito.
D. Vent’anni di toga, spesso dalla parte delle donne. E un impegno civile che, in parallelo, non è mai venuto meno. Si è mai chiesta perché lo fa?
R. Talvolta. E ogni volta penso alle donne che non ce l’hanno fatta e che non ci sono più ma anche a quelle che, trovando il coraggio di reagire, hanno salvato le loro vite.