ItaliaOggi, 6 dicembre 2019
50 anni fa l’attentato a piazza Fontana che diede inizio alla «strategia della tensione»
Nessuno è in carcere. Da 50 anni aspettano giustizia 17 vittime e 88 feriti. L’attentato che diede inizio alla cosiddetta strategia della tensione, con l’obiettivo di creare un regime autoritario, avvenne il 12 dicembre 1969 nel centro di Milano, in piazza Fontana, nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Nel 2005 la Cassazione ha stabilito che la strage fu opera di «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine Nuovo e capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura», non più perseguibili in quanto precedentemente assolti con giudizio definitivo dalla Corte d’appello di Bari. Ventura è morto a Buenos Aires nel 2010, Freda ha fondato ad Avellino la casa editrice Ar (tra i volumi in catalogo: Piazza Fontana, una vendetta ideologica) e ha sempre negato un suo coinvolgimento nell’attentato. Di certo dietro quella strage c’era chi tirava le fila, non poteva un piccolo gruppo di esaltati di estrema destra realizzare con le sole proprie forze quanto successe quel 12 dicembre: cinque attentati. A Milano, un altro ordigno, inesploso, venne rinvenuto in piazza della Scala, a Roma ci furono tre esplosioni che provocarono 16 feriti, alla Banca Nazionale del Lavoro in via San Basilio, a Piazza Venezia e all’Altare della Patria.In mezzo secolo non si è riusciti a risalire ai mandanti né a coloro che misero le bombe, tranne appunto la condanna, pleonastica, per Freda e Ventura relativa a piazza Fontana. Si riuscirà mai a raggiungere la verità? Tante le ipotesi, che si rincorrono in un labirinto che sembra non avere uscita. Una di queste ipotesi l’ha avanzata un magistrato di Milano, Guido Salvini, che ha pubblicato (insieme al giornalista Andrea Sceresini) il libro La maledizione di piazza Fontana e che continua a raccogliere documenti sull’attentato. Dice: «Negli anni ’90 da giudice istruttore ho riaperto le indagini, da molti anni a Milano ferme, sull’eversione di destra e su piazza Fontana. Sono state indagini difficili per l’ambiente in cui si svolgevano e per gli ostacoli che sono venuti anche dall’interno della magistratura. Hanno consentito comunque di ricostruire i fatti e la storia di quel periodo. Spero sia possibile raccogliere ancora qualche frammento di verità».
Verità sull’ipotetico depistaggio dei servizi segreti? «C’è un dato certo», risponde Salvini, «le condanne del generale Gianadelio Maletti e del capitano Antonio Labruna, entrambi del Sid, i servizi segreti, sono definitive. Sono stati condannati per avere fatto fuggire all’estero Marco Pozzan (accusato di associazione sovversiva e colpito a suo tempo da mandato di cattura, ndr) e Guido Giannettini (ritenuto dai giudici di Catanzaro, dove si svolse uno dei processi, tra gli ispiratori della strage, deceduto a Roma nel 2003, ndr) due personaggi importanti dell’estremismo di destra. I governi dell’epoca hanno negato a lungo che Giannettini fosse anche un agente del Sid e che fosse l’elemento di collegamento con la cellula padovana di Ordine Nuovo, quella di Freda e Ventura. È anche per questo che piazza Fontana si può definire una strage di stato».
In occasione dei 50 anni ha scritto un libro (La bomba) anche Guido Lorenzon, professore di scuola media, amico di Giovanni Ventura poi suo principale accusatore «di fronte», dice, «a quella strage». All’indomani dei funerali (aveva 28 anni) si presentò dai magistrati per raccontare che Ventura gli aveva confessato che stava preparando il «colpo grosso» contro lo stato. Oggi dice: «Fu una scelta dolorosa per lui ma fondamentale per la giustizia. Lo stato, che ha cercato in tutti i modi di nascondere la verità dopo avere costruito tutto il percorso perché Pietro Valpreda fosse indicato come il mostro, non ci ha ancora detto perché l’ha fatto e non si è ancora assunto la responsabilità di dire: c’era la guerra fredda e noi dovevamo difendere la democrazia dal comunismo. Ma tutti quei morti non possono essere comunque giustificati».
Un altro libro uscito per l’occasione è La strategia della paura dello storico Angelo Ventrone, docente all’università di Macerata: «Ci sono milioni e milioni di pagine ancora tutte da esplorare per poter dire che su trent’anni di stragi e di strategia della tensione e della paura, finalmente ci si stia avvicinando alla verità e che la giustizia sia fatta per intero. Occorre dunque scoperchiare quel ribollente pentolone fatto di intercettazioni, violazioni da parte dei servizi, rivelazioni fornite in ritardo ai giudici che hanno sentenziato sulle stragi di piazza Fontana, Italicus, piazza della Loggia e Bologna. Indagare ancora si può e certo si deve su tre decenni di vita repubblicana, dal 1960 al 1990: un infinito tunnel nero che abbiamo attraversato e che appena ieri abbiamo lasciato dietro le spalle».
Il consiglio comunale di Milano terrà una seduta straordinaria il 12 dicembre, alla presenza del presidente della repubblica. In piazza Fontana saranno poste le formelle coi nomi delle 17 vittime, nei pressi della casa di Giuseppe Pinelli, l’anarchico accusato ingiustamente della strage e che si può considerare la 18esima vittima: dalla finestra della questura precipitò (mai chiarito in che modo) in strada. La 19esima vittima fu il commissario Luigi Calabresi, colui che lo stava interrogando, ucciso da un commando di Lotta Continua di cui faceva parte Leonardo Marino che confessò di avere partecipato all’assassinio del commissario insieme a Ovidio Bompressi, indicando i mandanti in Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. Marino venne condannato a 11 anni di reclusione, pena poi prescritta grazie alle attenuanti generiche; 22 anni fu la pena per Bompressi (poi graziato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano), Pietrostefani (vive in Francia) e Sofri (ha scontato gran parte della pena in detenzione domiciliare). Tranne Marino, tutti hanno sempre negato il coinvolgimento nell’attentato.
Se piazza Fontana ha segnato l’inizio della strategia della tensione, l’assassinio di Calabresi ha rappresentato il primo atto della strategia insurrezionale che avrà poi il suo culmine con i delitti delle Brigate Rosse (e l’uccisione di Aldo Moro). Non a caso il giudice Salvini dice: «Credo che Pietrostefani avrebbe il dovere morale di raccontare cos’è realmente accaduto, come maturò quell’omicidio. Non si ha il diritto di chiedere la verità sul 12 dicembre 1969 se si sceglie di tacere su quello che è avvenuto il 17 maggio 1972, se non si sceglie di raccontare chi mandò Marino e Bompressi in via Cherubini a uccidere il Commissario».