Corriere della Sera, 5 dicembre 2019
Gli 80 anni di Franco Carraro. Intervista
Per prendere un appuntamento con Franco Carraro bisogna inserirsi tra una riunione d’affari a Doha e una a Losanna al Cio. Gli 80 anni sono fuori dalla porta (compleanno domani: auguri), ma li accoglie un uomo ancora impegnatissimo e totalmente immerso nel presente, nonostante da questa splendida villa sul Gianicolo – che dà sull’Orto botanico e l’Anfiteatro dell’Arcadia, dove una volta all’anno vengono a recitare poesie – siano passati 50 anni di sport e politica. Ma l’uomo – nato a Padova, cresciuto a Milano, dove è stato anche presidente del Milan, sposato e vissuto a Roma dove è stato presidente di Figc e Coni e anche sindaco, vestito sempre di blu e che beve solo acqua non gasata – è poco incline alle celebrazioni.
«Ho una proposta per il calcio italiano».
Prego.
«Abbiamo un serio problema con il razzismo. La repressione va bene ma limita il fenomeno senza superarlo. Facciamo qualcosa: istituzionalizziamo che, di fronte a un coro allo stadio, per le società siano pronte pene severe e l’arbitro sospenda subito la partita, a meno che tutto lo stadio non si metta ad applaudire. Un gesto semplice, che non costa fatica. Ma un segnale forte. Sono convinto che, alla terza o quarta volta che lo stadio si mette ad applaudire, il fenomeno finisce. È come con l’inno nazionale. Il presidente Ciampi voleva che gli atleti cantassero l’inno, io lo dissi in Figc nel 2000. Sembrava una cosa stravagante, adesso è un’abitudine. Lo stesso può succedere per l’applauso contro il razzismo. Sarebbe orribile se la partita inaugurale dell’Europeo a Roma fosse macchiata dai buu».
Teme questo?
«Spero di no, ma è aumentato il rifiuto del diverso».
Sport e politica, chi è messo peggio?
«In Italia penso che lo sport stia un po’ meglio del resto. In generale è un momento complicato. Se lei pensa che negli Stati Uniti, il Paese guida del mondo, c’è Trump. E che chi gli si oppone è rappresentato da ultra 70enni, Biden, Bloomberg, la Clinton. Dopo la caduta del mondo comunista, quello capitalista ha esagerato: la forbice tra chi ha di più e chi ha di meno sta diventando insopportabile, un capo azienda non può guadagnare duemila volte di più di un suo dipendente e uno sportivo non può guadagnare 4/5 volte più di lui. È tutto troppo».
Lei che si dimette da presidente della Lega calcio per la valutazione di 5 miliardi di Paolo Rossi oggi che farebbe?
«Alla base del successo dello sport c’è la credibilità. Si è sempre dato del cornuto all’arbitro ma uno deve avere la sensazione che vinca il più bravo o il più fortunato. Se il calcio diventasse solo show business rischierebbe di fare la fine del pugilato: sparito. Per carità siamo molto lontani, ma tra vent’anni?».
Che pensa del fair play finanziario?
«Mi sembra un fallimento totale».
Mi hanno chiamato l’Andreotti e il Richelieu dello sport Mi sembra esagerato, e poi Richelieu non ci metteva la faccia, io l’ho messa anche troppo
Che effetto le fa l’Europeo itinerante?
«All’inizio un po’ strano, poi ho pensato: magari è un bel messaggio di unione per l’Europa».
Ha gestito Italia 90: organizzeremo ancora un Mondiale?
«Intanto abbiamo Milano-Cortina. Non sprecheremo risorse perché sarà il Cio stesso a impedircelo: deve dimostrare che non si costruiscono più cattedrali nel deserto».
Lei che ha scelto due c.t. campioni del mondo, Bearzot e Lippi, che pensa di Mancini?
«È bravo, ha stabilito un record con partite non impossibili. Ha ottenuto dai giocatori concentrazione e dedizione. La differenza poi la fa uno che su 5 palle segna 3/4 gol».
Anche Conte le piace: dice che le ricorda Mennea.
«Vedo in loro quasi una forma di rivalsa, Conte come Mennea è sempre incazzato».
Mette Rocco tra gli uomini importanti della sua vita.
«Fu l’artefice dei successi del mio Milan. E mi insegnò molto umanamente».
Nel suo libro, «Mai dopo le ventitré», scritto con Emanuela Audisio, dice che doveva occuparsi di più dell’addio.
La cosa di cui vado più fiero è aver partecipato a Mosca ’80 rispettando il sacrificio degli atleti.
«Ho avuto successo da presidente, ma se il Milan ha avuto tutti quei problemi dopo vuol dire che ho sbagliato io. Avevo incontrato Berlusconi nel ‘71 per venderglielo ma non se ne fece niente. Questo però dimostra che è falso che lui fosse interessato all’Inter. Berlusconi, che ha vinto più di tutti, quando ha lasciato ha fatto il mio stesso errore».
Ora al Milan come altrove le proprietà sono straniere.
«Succede quello che è successo nell’impresa, i nostri imprenditori hanno venduto senza pistole alla tempia. Quanto al Milan il fondo ha interesse a valorizzarlo».
L’hanno chiamata in tanti modi: poltronissimo...
«Azzeccata, ho sommato tante cariche, ma quando ne ho presa una, ho cercato di fare quello che era giusto».
...l’Andreotti o il Richelieu dello sport. Qualcuno ha paragonato la sua longevità al potere a quella di Castro.
«Mi sembra sproporzionato, loro hanno fatto la storia. Ma Richelieu sicuramente no, lui agiva nell’ombra, senza mai metterci la faccia. Io l’ho messa anche troppo. Andreotti era un politico di altissimo livello, forse più abile nella gestione e meno dotato di visione del mondo. Voleva gestirlo non cambiarlo».
Cosa si rimprovera?
«A volte mi sono compiaciuto di essere antipatico».
La cosa di cui è più fiero?
«L’aver partecipato a Mosca 1980 rispettando il sacrificio degli atleti. Manteniamo i rapporti commerciali e fermiamo solo lo sport? Sapevo che rischiavo di indebolire il Coni, ma per fortuna ci sono stati Mennea, Simeoni...».
Oggi la riforma ha tolto potere al Coni.
«Dal 1945 al 2018 il presidente del Coni è stato il vero ministro dello Sport. Nel 2003 lo Stato ha iniziato a finanziare il Coni ed era inevitabile che qualcosa sarebbe cambiato: Petrucci e Malagò sono stati bravi a prendere i soldi, ma continuare a gestire. Una riforma era ed è nell’ordine delle cose. È chiaro che quando cambi un sistema che è stato in vigore per 73 anni e lo fai poi attraverso poche righe nella legge di stabilità, ci sia un momento di passaggio. Mi auguro che prevalga la collaborazione tra governo, Sport e Salute e Coni e che si trovino soluzioni logiche. Tenendo bene a mente tre fatti: 1) che lo sport è basato sul volontariato, 2) che è il ministero della Pubblica istruzione e l’organizzazione scolastica che decidono se incrementare o meno lo sport nella scuola, 3) che la salute la gestiscono le Regioni con i soldi dello Stato».