il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2019
Gli Agnelli e la fine di Fiat
Il declino dell’industria italiana, imputato solo a una classe politica corrotta o incompetente, ha visto come protagonisti attivi, invece, proprio i capitani di industria. Non che la politica non ci abbia messo pesantemente del suo: il ruolo dei governi di centrodestra o dei tecnici nelle vicende Alitalia e Ilva, è noto, la responsabilità del centrosinistra nel favorire privatizzazioni per lo meno avventate, anche.
Ma esistono anche le responsabilità di coloro le cui gesta sono state cantate, troppo spesso in modo acritico in questi anni, e i cui lasciti rasentano la miseria. Nelle puntate scorse abbiamo messo in luce le gestioni fallimentari dei Riva all’Ilva di Taranto, di Colaninno alla Telecom, ma anche le idiozie sui “capitani coraggiosi” incaricati di salvare Alitalia o l’irresponsabilità di chi ha regalato miliardi di profitti ai vari Benetton e Gavio sulle Autostrade.
Protagonista del declino è però a pieno titolo anche la (ex) Fiat, sia nella figura, non più in vita, di Sergio Marchionne, ma soprattutto in quella della famiglia Agnelli. Forse l’esemplare più duraturo di rapace che il Paese abbia conosciuto.
Come la Fiat abbia abbandonato l’industria, e quindi anche l’Italia, lo abbiamo raccontato fino alla nausea. La fusione con la Chrysler come passaggio per divenire costola provinciale di qualche mega-gruppo internazionale; la vendita di Magneti Marelli a Calsonic Kansei, il gruppo giapponese controllato dal gigante del private equity Kkr, quindi sempre finanza; le voci di una possibile vendita di Comau, che ora verrà comunque riassegnata nella trattativa sulla fusione con Peugeot; la concentrazione, tramite Exor, la finanziaria di famiglia, su asset finanziari e, nonostante il mercato, addirittura editoriali. Prima The Economist, ora anche Repubblica e il gruppo Espresso. E poi il caso Fiat.
La recente denuncia da parte della General Motors contro la corruzione operata da Fca, con la regia dello stesso Marchionne, nei confronti del sindacato Uaw – che proprio in questi giorni sta lavorando a una revisione delle procedure finanziarie interne per reagire agli scandali – getta una nuova ombra su quello che fu definito il capolavoro dell’ex manager italo-canadese.
La fusione con Chrysler è stata raccontata come l’apice delle virtù manageriali e imprenditoriali. E si dimentica che in fondo Barack Obama, per salvare l’industria americana, regalò letteralmente la terza azienda automobilistica degli Usa alla Fiat che la rilevò senza sborsare un dollaro. Salvo poi restituire i prestiti (del governo Usa e canadese, ma anche dello stesso sindacato) quando fu recuperato l’utile. In realtà la Fiat salvò il proprio management e la famiglia proprietaria con il rilancio del marchio americano, in particolare la Jeep, costruendo le basi per il grande boccone rappresentato dalla fusione con Peugeot che frutterà agli Agnelli circa 5 miliardi di premio (ma lo vedremo fra poco).
Nei circa dieci anni di avventura americana il divorzio tra il “bene” della Fiat e quello dell’Italia è diventato reale. Sul lato dell’azienda si sono avuti dal 2004 al 2018, 16 miliardi di euro di utili, pur considerando le due perdite del 2004 (1,63 miliardi) e del 2009 (-838 milioni). In questi stessi anni, il fatturato è passato da circa 44 miliardi a 110, l’indebitamento da 14 miliardi a 1,8 e il valore d’impresa (capitalizzazione più indebitamento finanziario netto) da 19,5 a 24,8 miliardi.
Sul piano della forza lavoro e della industria italiana si è avuto invece il passaggio da circa 77 mila dipendenti a poco più di 50 mila (a cui sommare una parte di quelli della ex Iveco, oggi Cnh, ma che non compensano il gap). Il fatturato in Italia è passato dai 13 miliardi del 2004 agli 8,8 miliardi del 2018, solo che quello rappresentava circa il 29% del fatturato globale mentre oggi rappresenta appena l’8 per cento (il fatturato globale è infatti di 110 miliardi).
È la stessa Fim-Cisl, che non ha mai avuto un atteggiamento pregiudiziale contro la Fiat, a segnalare nel gennaio 2019 che gli ammortizzatori sociali del gruppo riguardano ormai il 12-15 per cento della forza lavoro. La rassegnazione a Torino, sede dei fasti del passato, si raccoglie agli angoli delle strade così come la paura del futuro. E quello che rende molto più chiaro questo quadro è la salute della cassaforte di famiglia, la Exor nata da una fusione delle due vecchie finanziarie Ifi e Ifil. Quelle che finirono sotto processo con la condanna in appello a un anno e quattro mesi (poi prescritta in Cassazione) per Gianluigi Gabetti, presidente onorario di Ifil e per l’avvocato Franzo Grande Stevens. Le condanne, per aggiotaggio informativo, riguardavano l’equity swap del 2005 che consentì agli Agnelli di mantenere il controllo della Fiat pur essendo scesi sotto il 30% della partecipazione azionaria.
Come ricordava Il Sole 24 Ore pochi giorni fa, oggi la Exor è rigonfia di utili e liquidità. “Facendo un confronto con il 2009 – scrive il giornale di Confindustria – il net asset value (il valore netto del patrimonio aziendale, ndr.) è passato da 3,1 miliardi a 20,9 a fronte di un debito che a giugno era pari a 2,5 miliardi”. Spiccioli. Ma ancora più eclatante è il ritorno per gli azionisti dei dividendi, il total shareholder: “1.251%”. Solo nel 2019 la società ha beneficiato di una cedola dividendi pari a 1,059 miliardi. Che ci ha fatto la Exor con tutti questi utili accumulati negli anni? “La gran parte di questa liquidità è stata reinvestita nella finanziaria”. Che sempre più spesso nel capitalismo contemporaneo non fa rima con industria.