Il Messaggero, 5 dicembre 2019
La guerra sul 5G, spiegata bene
Il 2020 sarà l’anno del 5G. La definitiva affermazione delle reti di nuova generazione ormai è a portata di mano in tutto il mondo. Anche in Italia, dove la corsa alla banda ultra-larga sembra aver raggiunto un equilibrio (precario) tra guerre commerciali, polemiche, timori per la salute ed investimenti. Le sperimentazioni condotte da operatori ed aziende tech, ad esempio, hanno permesso al nostro Paese di ottenere il secondo posto in Europa, dietro alla sola Finlandia, per quanto riguarda le potenziali applicazioni del 5G. Allo stesso modo l’infrastrutturizzazione della Penisola procede nonostante i rallentamenti dettati dallo scontro su un’eventuale rete unica. Non a caso, secondo un’indagine svolta da EY Italia (Ernst & Young) commissionata da Huawei, dal prossimo anno la copertura 5G in Italia potrebbe già raggiungere il 30% della popolazione.
POTERI SPECIALIIn particolare i residenti dei centri urbani più estesi come Roma, Milano, Bari, Torino e Palermo, o come Matera e L’Aquila spesso protagonisti dei cosiddetti progetti pilota. Tale scenario però, nelle stime di EY per concretizzarsi ha bisogno che il governo non preveda nuovi poteri speciali per l’esercizio della Golden Power. Cioè che l’esecutivo non si riservi – come già fatto dal secondo governo Conte alla fine della scorsa estate, subito dopo l’insediamento – un’ulteriore intervento specifico sui contratti stipulati tra operatori e aziende che forniscono tecnologia per il 5G.
Un’eventualità che però ad oggi sembrerebbe tutt’altro che remota. «Il perimetro della sicurezza nazionale si estende e bisogna disegnare una architettura legislativa avanzata» ha infatti detto Conte a Milano il 22 novembre, nel corso di un evento su intelligence e imprese. Ad esempio, ha aggiunto, «ampliando la disciplina della Golden Power in settori strategici per fare in modo che servizi come il 5G siano conformi a standard di sicurezza il più possibili elevati».
RALLENTY&SECURITY
Il rallentamento paventato potrebbe quindi essere dietro l’angolo, ma giustificato da motivi di sicurezza. È innegabile infatti che l’Italia si trovi nel bel mezzo del fuoco incrociato nella tech war in corso tra Stati Uniti e Cina e che, quindi, debba provare a difendersi al meglio delle sue possibilità. Per questo ad esempio è stato approvato a metà novembre il decreto-legge che introduce il perimetro di sicurezza nazionale cibernetica. Il testo non solo ha previsto nuovi obblighi per soggetti pubblici e privati ed un centro di valutazione e certificazione nazionale più forte, con poteri anche sulle forniture, quanto ha soprattutto già rafforzato una prima volta proprio la normativa sulla Golden Power. Al di là di queste iniziative però, il problema della sicurezza delle reti sembra ben lontano dal raggiungere una risoluzione. Come ha spiegato anche il presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), Angelo Marcello Cardani, in audizione in commissione Trasporti alla Camera nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle nuove tecnologie: quella della sicurezza delle reti 5G è una questione «sostanzialmente insolubile: bisogna solo scegliere se essere spiati, tra virgolette, dai cinesi o dagli americani».
Anche perché, ha continuato il presidente dell’Authority, il nostro «Paese non ha capacità di fare isola e poggiare solo sulle proprie forze». Oggi in pratica, la Penisola vive in un caos calmo che consente di sperare che quanto di buono fatto fino ad ora non venga sprecato. Un iniziale successo sottolineato dallo stesso Cardani nel corso della medesima audizione. L’Italia «ha compiuto i passi necessari a promuovere la diffusione del 5G con largo anticipo rispetto alla gran parte degli altri Stati europei, come riconosciuto nel Rapporto Desi 2019» (Digital Economy and Society Index, ndr) ha spiegato, sottolineando anche come si sia ben lavorato nella distribuzione delle frequenze ai diversi operatori.
AVANGUARDIA
Un impegno che se adeguatamente portato avanti, nelle previsioni del presidente dell’Authority, consentirà «all’Italia di posizionarsi tra i primi Paesi al mondo ad aver lanciato servizi 5G commerciali». Operatori e istituzioni della Penisola infatti, a suon di investimenti, sembrerebbero essere riusciti a guadagnare un vantaggio competitivo di tutto rispetto sugli altri Paesi del Vecchio Continente. Non è un caso ad esempio se i tanto chiacchierati colossi cinesi protagonisti della rivoluzione del 5G abbiano scelto proprio l’Italia come base operativa europea. Un vero e proprio scatto in avanti rilevato anche dall’indagine annuale sul settore Tlc elaborata dall’Ufficio Studi di Mediobanca. Tuttavia il report, se da un lato precisa che l’Italia è al secondo posto in Europa per quanto riguarda le sperimentazioni 5G alle spalle della Finlandia, dall’altro stabilisce anche come la diffusione capillare delle nuove reti rischi di essere frenata dalle resistenze più volte emerse non solo dal Governo ma anche dai piccoli comuni. I sindaci infatti non concedono facilmente i permessi per timori, al momento non comprovati scientificamente, relativi alla salute dei cittadini. Un’opposizione concreta che in realtà ha anche già travalicato i confini degli enti locali portando, fino ad oggi, a 165 il numero di atti parlamentari, regionali, provinciali e comunali, con cui è stato chiesto ma non sempre ottenuto di bloccare la tecnologia o approfondire i suoi effetti. Una sorta di obiezione di coscienza legata al principio precauzionale garantito dal diritto dell’Unione Europea che, di fatto, vieta le sperimentazioni o l’installazione di infrastrutture e, quindi, potrebbe rallentare ulteriormente l’ascesa della super connessione con ricadute non solo strategiche ma anche economiche. Per Arun Bansal infatti, vicepresidente senior del colosso delle telecomunicazioni svedese Ericsson e responsabile dell’area di mercato Europa e America Latina, il 5G potrebbe risollevare l’economia dell’intera Penisola. «Abbiamo stimato che entro il 2030 – ha detto al Messaggero poche settimane fa – l’impatto della super-connessione sul Pil del Paese sarà di 246 miliardi di euro». Un motivo in più perché politica, industria e ricerca italiane continuino a lavorare una accanto all’altra. Anche perché il ritmo dell’innovazione tecnologica nella connettività è molto serrato e qualcuno sta già lavorando al passaggio successivo, il 6G.
ARRIVA LA SESTA
C’è un vecchio adagio che circola tra gli esperti del settore: «Le generazioni con i numeri pari concretizzano le promesse fatte dai numeri dispari». Il 5G in pratica, per quanto rivoluzionario, starebbe preparando il terreno in termini di infrastrutture e capacità tecnologiche al più decisivo 6G. Ad esempio, diversi studiosi dell’Università di Oulu in Finlandia, circa 600 chilometri a nord di Helsinki, hanno appena formato il primo team di ricerca europeo sul tema (ce ne sono già a lavoro anche in Cina, Giappone e Stati Uniti). L’obiettivo è, a partire dal 2030, fondere mondo digitale e fisico grazie alla latenza pari a zero – vale a dire il tempo intercorso tra invio e ricezione di un segnale che con il 5G è già ridotto al minimo, poco più di un battito di ciglia – e la sempre maggiore potenza di calcolo del cloud. Sarà come implementare la vita quotidiana con un nuovo piano della realtà con delle interfacce che appaiono come ologrammi per supportare le nostre scelte senza neppure tirare fuori dalla tasca un dispositivo.
Niente più smartphone quindi, piuttosto un futuristico alter ego digitale che cammina accanto all’utente. Per questa rivoluzione però c’è ancora tempo, per quella 5G un po’ meno.