https://www.ilpost.it/2019/12/04/inciampi-marco-filoni, 4 dicembre 2019
La vita di un compilatore di dizionari
Inciampi – Storie di libri, parole e scaffali di Marco Filoni è un libriccino divertente per appassionati di libri, nel contenuto come nella fattura. Raccoglie alcuni brevi saggi, racconti biografici e articoli in parte già pubblicati ma qui rielaborati e arricchiti, che toccano alcuni temi cari a bibliofili, letterati e semplici-lettori: dall’ordine con cui vengono ordinati i libri alla libreria in quanto contenitore, dalla natura delle traduzioni – «d’un testo il critico è solamente il corteggiatore volante, l’autore il padre e marito, mentre il traduttore è l’amante», citando Gesualdo Bufalino – all’abitudine di procrastinare, che «per uno scrittore è spesso una condizione professionale prima che esistenziale».
È pubblicato dalla casa editrice Italo Svevo – fondata a Trieste poi rilevata e riaperta nel 2016 dall’editore romano Alberto Gaffi – nella collana Piccola biblioteca di letteratura inutile e, come tutti i suoi libri, è stampato su carta di pregio con pagine intonse, da aprire con un tagliacarte: è colpa di un tipografo sbadato, spiega il direttore editoriale Giovanni Nucci – poeta, un tempo editor per la casa editrice E/O e consulente per Mondadori Ragazzi, Adelphi e Laterza – o forse è un modo per obbligare i lettori a prendersi cura del libro prima di leggerlo, o forse ancora un antistress, o «magari è soltanto economia, risparmio, in questo modo ogni copia ci costa quasi dieci centesimi in meno». Oltre che da tagliare, le sue pagine sono anche belle da toccare e da guardare, a partire dalla copertina; il progetto è curato dal grafico editoriale e illustratore Maurizio Ceccato, che ha collaborato con Fazi Editore, Ponte alle Grazie, l’Unità, l’Espresso, e fondato la rivista B comics.
Marco Filoni è nato a Fermo nel 1975 ed è dottore di ricerca in Storia sulla filosofia. Collabora con giornali e riviste tra cui Il Venerdì di Repubblica e Tuttolibri della Stampa; tra i suoi libri più recenti ci sono Anatomia di un assedio. La paura nella città e Kojève mon ami. Di seguito, un passo del capitolo dedicato ai dizionari, che servono a fotografare, ingessare o far evolvere una lingua, con le storie, fittizie e vere da non crederci, di alcuni di quelli che li hanno compilati.
Il giorno in cui abbiamo scoperto che ci manca un tagliacarte in redazione
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Se siamo la lingua che parliamo, allora i dizionari sono le nostre biografie. Vite scritte, stampate – tenendo sempre salda, come l’ombra, un’esortazione: scrivere bene una vita è difficile quanto viverla. Allora, una parola dopo l’altra, i dizionari contengono l’universo in ordine alfabetico, ma proprio come le parole – e le vite – sono oggetti finiti, effimeri e fragili.
Ecco allora che era nel torto quell’amaro genio di Ambrose Bierce quando bollava il dizionario come un maligno stratagemma letterario che serve soltanto a irrigidire una lingua, a imprigionarla nel tempo. Il dizionario si nutre del tempo, perde parole come foglie d’autunno ma soltanto per far posto a parole nuove, germoglianti lemmi che nel frattempo sono nati, innaffiati dalla vitalità di una lingua. Perché accada, però, hanno bisogno di chi li curi, come piante in un giardino. Serve cioè il lavoro di Henri Cinoc e dei suoi colleghi, nella redazione dei dizionari Larousse della lingua francese: solo che mentre i suoi colleghi erano audaci esploratori che si avventuravano fra i meandri di un idioma per scoprire parole nuove e nuovi significati, astrazioni di lettere che assumevano un senso tutto loro, Cinoc no. Lui faceva il mestiere inverso: era, lo diceva di se stesso, l’«ammazzaparole». Per far posto alle nuove era necessario eliminarne di vecchie, quelle che nessuno più usava. Parole antiche, recondite, dai significati arditi. Che però non venivano più pronunciate, relegate nel limbo dell’oblio. E allora arrivava Cinoc e via: con un colpo di penna leggero e ineluttabile, quei vocaboli scomparivano per sempre dal dizionario.
Questo, almeno, fino al Millenovecentosessantacinque, quando a esser mandato in pensione fu lui, Cinoc. In cinquantatré anni di diligente servizio, certosino, aveva fatto sparire centinaia e migliaia di cose, di dèi e culti, di città e fiumi e laghi, aveva restituito alla notte dei tempi il velocimane e il vedettografo, aveva cancellato gli abuna e le palatine insieme a schiere di mestieri, attrezzi, motti, pesi e misure.
Ma i demoni non si quietano con la pensione. Ecco allora il mite Cinoc, ossuto e d’una certa eleganza – un portamento che il lungo chinarsi sui libri non aveva scalfito – a ciondolare fra i lungosenna, patria dei bibliomani d’ogni dove. Scartabella, sfoglia, si lascia sedurre, e per pochi spicci la pila dei suoi libri si allunga. Saggi fuori commercio, vecchi atlanti polverosi, romanzetti senza posa, trattati dimenticati di discipline desuete e via via in un vortice di onnivora curiosità. Dai bouquinistes alle biblioteche cittadine il passo è breve. E s’innalza la costruzione della cattedrale di letture del nostro Cinoc, che legge con attenzione, e annota. Cosa? Parole, ovviamente. Quelle stesse che per oltre un cinquantennio di onorata carriera aveva cercato, scelto e poi cancellato dalla sua lingua, tornano ora a farsi vive con lui. E Cinoc è sensibile, non le trascura: inizia così il nuovo progetto della sua vita, redigere un dizionario di queste parole rare, dimenticate. E non perché vuol salvarle, nemmeno per strapparle alla quiete della dimenticanza. No, Cinoc le raccoglie per un altro motivo: perché quelle parole continuano a parlargli.
Il circolo, vizioso e virtuoso insieme, di Henri Cinoc è un’immagine perfetta. Peccato però che Cinoc non sia mai esistito, se non nella fulgida e strabiliante penna di Georges Perec, che l’ha reso immortale come personaggio di La vita istruzioni per l’uso. Eppure la realtà ci ha riservato una sorte benevola regalandoci figure vere, in carne e ossa, straordinarie tanto quanto l’operoso Cinoc. Da quell’anonimo abitante della Mesopotamia che un giorno, forse perché accaldato o chissà, ha pensato bene di incidere su una tavoletta di argilla una lista di parole accadiche facendo seguire il loro significato, realizzando quello che è il primo dizionario della storia dell’umanità. O l’ostinato Panfilo di Alessandria, vissuto sul finire del I secolo a.C., il più grande lessicografo antico al quale non mancarono il rigore e la pazienza – virtù indispensabili per portare a termine quel monumentale lessico in novantacinque volumi con le parole ordinate alfabeticamente – dando così la forma ai dizionari come li conosciamo oggi.
Dobbiamo però fare un salto di molti secoli per godere di esistenze magnifiche legate ai dizionari. Epoca vittoriana, sul finir dell’Ottocento: nel regno di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra prende forma una storia leggendaria, la vicenda di un’opera folle e di un folle all’opera. Questa storia ha tre protagonisti – ed è talmente letteraria che è stata meravigliosamente narrata nel libro di Simon Winchester, Il pazzo e il professore. Si apre con una delle conversazioni più straordinarie della storia della letteratura moderna. Ebbe luogo nel 1897: il prode professor James Murray della Philological Society di Londra, direttore editoriale dell’Oxford English Dictionary, si reca nel manicomio criminale di Broadmoor. Vuol conoscere il dottor W.C. Minor, l’uomo che non ha mai incontrato di persona ma che di fatto è diventato il suo più assiduo collaboratore. Si presenta così nell’ufficio del direttore e con un sorriso smagliante, emozionato, allarga accogliente le braccia: onorato finalmente di conoscere il dottor Minor. Il suo interlocutore, il direttore, sgrana gli occhi imbarazzato. Deglutisce vistosamente, fa passare qualche lungo secondo di silenzio nel quale il suo sguardo vaga confuso, finché si schiarisce la voce rumorosamente, troppo per non tradire disagio. Me ne rincresce davvero, stimatissimo signore – inizia a dire – ma le cose non stanno come credete: il dottor Minor è qui, senza dubbio, ma non sono io: è un detenuto, ricoverato da più di vent’anni per aver assassinato un uomo.
(© Italo Svevo 2019)