la Repubblica, 4 dicembre 2019
La nuova città di Kim
L’utopia socialista di montagna, «epitome della civilizzazione moderna», ha stradoni perpendicolari e chalet squadrati come Lego, ma con mezzo metro di neve a rendere gli angoli un po’ più soffici. Giù nella piazza, circondato da una folla intabarrata nel gelo della Corea del Nord, lunedì è arrivato l’urbanista supremo Kim Jong-un, in lungo cappotto nero di pelle. Ha afferrato un paio di forbici e tagliato sorridendo il nastro rosso: Samjiyon, uno dei suoi progetti simbolo, è pronta. O meglio, è finita la seconda di tre fasi di sviluppo, se tutto andrà bene i lavori si concluderanno alla fine del 2020. Urge mandare un messaggio al mondo, agli Usa: la Corea del Nord può fare da sola. E allora fuochi d’artificio, si inaugurano appartamenti per 4 mila famiglie, l’hotel, le piste dove i maestri hanno sci francesi ultimo grido e, forse, arriverà a divertirsi la nuova classe media di Pyongyang. Slalom sulle pendici della montagna sacra, Paektu, la vetta al confine con la Cina da cui la dinastia Kim sostiene di aver origine.
La verità è meno idilliaca. I cantieri avanzano tra mille ritardi. Le braccia non mancano, il regime spedisce sul posto le brigate giovanili, squadre di ragazzi che si spaccano la schiena 12 ore al giorno in cambio di una tessera di Partito. Ma a causa dell’embargo spesso mancano i materiali. Eppure la situazione nello Stato più recluso del pianeta non pare neppure tragica, nonostante le sanzioni. Da settimane, dopo la rottura del negoziato con Trump, Kim ha ripreso gli esperimenti balistici, già 14. Ieri il regime ha ribadito il suo ultimatum a Washington: aspettiamo una nuova proposta negoziale entro l’anno o saranno guai, «scegliete che regalo di Natale volete». Quello più sgradito sarebbe una ripresa dei test intercontinentali.
Trump fa buon viso a cattivo gioco, ribadisce l’amicizia con Kim, dice che il dittatore rispetterà gli impegni (assai vaghi) a denuclearizzare, ma torna anche a chiamarlo “uomo razzo”. La diplomazia delle relazioni personali ha prodotto il massimo, un paio di vertici show, ma poi si è scontrata con la realtà: per Washington la rinuncia al nucleare da parte del regime è la precondizione, per Pyongyang, semmai, la concessione finale. Una vaga promessa non basta a convincere Kim. Neppure Moon Jae-in, il presidente sudcoreano grande mediatore del disgelo, sa più che inventarsi. Il dittatore ha minacciato anche lui: Seul deve demolire gli edifici costruiti nel Nord ai piedi del monte Kumgang: «Sono brutti, vergognosi». La Corea del Nord può fare di meglio da sola.