il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2019
Ancora sulla quotazione di Aramco
Mancano poche ore a quella che potrebbe essere la più grande privatizzazione del mondo: il valore della società del petrolio saudita Saudi Aramco oscillerebbe tra i 2.000 miliardi di dollari secondo il suo principale sponsor, il principe Mohammed bin Salman che ne ha messo sul mercato l’1,5%, e i 1.600 miliardi secondo le banche d’affari. Venerdì si conoscerà la valutazione ufficiale dell’azienda che incarna l’era del petrolio. Potrebbe raccogliere fino a 25,6 miliardi di dollari, più di Alibaba, che nel 2014 ne aveva raccolti 25.
Aramco è la società che macina più ricavi al mondo: 110 miliardi di dollari nel 2018 al netto delle tasse, quasi il doppio di Apple. Il motivo è semplice: il petrolio è la prima fonte energetica al mondo; l’Arabia Saudita produce il 10 % del greggio mondiale; Aramco monopolizza la produzione del petrolio saudita. L’oro nero rappresenta il 40% del Pil saudita, più del 70% delle sue entrate fiscali, la quasi totalità delle esportazioni.
Il re Ibn Saud fondò l’Arabia Saudita nel 1932. L’anno successivo firmò una concessione con le società americane che avrebbero creato nel 1944 l’Arabian American Oil Company (Aramco). La produzione di petrolio si affermò subito come principale fonte di reddito della monarchia. Aramco fu l’architrave della creazione dello Stato saudita: per esempio “obbligò” nel 1952 i sauditi a creare un ministero delle Finanze e poi Sama (la Banca centrale) perché le servivano istituzioni alle quali versare la rendita petrolifera (tasse poi stornate dai pagamenti dovuti al fisco americano). Eppure l’immagine di una “grande pompa di benzina del deserto” asservita agli interessi Usa è vera solo in parte. Nel Paese si affermò ben presto una classe dirigente di tecnocrati affascinati dal modello socialista e nazionalista incarnato dal presidente egiziano Nasser. Al Tariki, il leggendario “sceicco rosso”, primo ministro del Petrolio saudita e fondatore dell’Opec nel 1960, si schierò subito per la nazionalizzazione di Aramco. Settori urbani, specie nell’Est del Paese (dove si trovano i principali giacimenti di petrolio), si batterono per maggiore autonomia dagli Stati Uniti. Il malcontento esplose violento nel 1967 con scioperi e blocco della produzione. Anche come reazione a queste pressioni “dal basso” l’Arabia Saudita, insieme agli altri grandi esportatori di petrolio, nazionalizzò negli anni 70 l’industria petrolifera. Aramco diventò nel 1980 interamente saudita, mentre il tentativo di creare una nuova società nazionale (Petromin) naufragò presto. Saudi Aramco (così fu ribattezzata nel 1988) conservò in parte la governance di quando era americana, con un board al quale partecipano anche top manager delle società petrolifere internazionali. Essa mantiene una “capacità di riserva” da utilizzare per “stabilizzare” il mercato e fare pressione sugli altri Paesi Opec; ha investito in progetti infrastrutturali ed educativi; si è messa l’elmetto per servire la monarchia saudita in più occasioni, come per sopperire al crollo della produzione di petrolio dopo l’invasione irachena del Kuwait.
Perché dunque “privatizzare” una società che ha svolto il suo lavoro così bene? L’origine del problema risale al declino dei prezzi del greggio nel 2014, fronteggiato con caparbietà dall’Opec, anche grazie all’inedita alleanza con la Russia e altri produttori. Il calo dei prezzi non sembra però un fenomeno passeggero: non solo per l’ascesa dello shale oil americano, ma anche per le pressioni dei movimenti ambientalisti sui Paesi più industrializzati, nonché per l’evoluzione delle strategie delle grandi istituzioni finanziare. Mentre si parla sempre più insistentemente di un prossimo “picco” del consumo, il declino delle entrate fiscali dalla produzione di petrolio è già oggi un fenomeno reale: il che spiega perché, mentre nel 2011 i petroStati erano riusciti a uscire relativamente indenni dalle primavere arabe, oggi quasi tutti, dal Venezuela, all’Iran all’Iraq, siano scossi dai venti della rivolta contro le politiche di austerità.
Ai petroStatinon restano che due opzioni. La prima è un cambiamento radicale del modello di sviluppo che faccia meno affidamento sulla rendita petrolifera: il che implicherebbe ridisegnare il patto sociale e politico su cui si fondano. La seconda, improntata al rilancio delle politiche “estrattiviste”, è reagire alla crisi vendendo i gioielli di famiglia e aprendo, anche con agevolazioni fiscali, agli investimenti stranieri per aumentare la produzione in una fase di declino dei prezzi. Diverse varianti dell’opzione “estrattivista” sono quelle di cui si discute con più insistenza oggi in Venezuela, in Ecuador, Algeria, in Iraq, così come negli altri petroStati del Golfo.
Le ipotesi di rilancio dell’estrattivismo contengono due rischi molto gravi. Il primo rischio, per la stessa Arabia Saudita, è che la vendita (o svendita) di un’azienda con la quale il popolo saudita, nel bene o nel malesi identifica, possa innescare instabilità in un Paese che finora è uscito relativamente indenne dalle crisi regionali del Golfo. Il secondo rischio è che la nuova Aramco (già oggi la maggiore fonte di emissioni di CO² al mondo), diventi un feroce competitor internazionale in lotta per nuovi mercati, e mini l’Opec dalle fondamenta innescando una spirale ribassista del prezzo del petrolio che, a sua volta, metterebbe in discussione la competitività delle energie rinnovabili rispetto alle fossili. A rimetterci, in questo secondo caso, saremmo tutti noi.