ItaliaOggi, 3 dicembre 2019
La maggioranza degli americani pensa che sia meglio l’ergastolo dell’uccisione
Negli Usa in un sondaggio è stato chiesto cosa gli intervistati preferissero fra pena di morte ed ergastolo, nel caso capitasse loro di commettere un delitto (oppure di esserne riconosciuti colpevoli e condannati al massimo della pena).L’opzione è collegata a una antica scelta culturale negli Stati Uniti, che sono ormai l’unico Paese civile sulla Terra a contemplare la pena di morte per i suoi delinquenti. Fra gli altri emergono tuttora la Cina e, più sorprendentemente, il Giappone. Ma l’America ha una «abitudine» in più: la somma della pena di morte e dell’ergastolo. Colpito da sentenza capitale, il condannato non viene soppresso rapidamente: passa in carcere un certo numero di anni prima di essere condotto nella cella della morte. Durante quel periodo, naturalmente, c’è la possibilità, molto tenue, che qualche istanza giudiziaria superiore trovi che la pena di morte non sia completamente giustificata e la commuti nel carcere a vita.
Certo, non è un argomento adatto alle campagne elettorali e non se ne parla molto, soprattutto nello stato di umore dell’attuale governo e del presidente in carica. Tuttavia il 60% degli americani preferirebbe languire a tempo indeterminato in cella, contro il 36% che, invece, se potesse scegliere, opterebbe per l’incontro immediato con il boia. Anche se non si tratta di un vero e proprio capovolgimento di gusti: secondo l’ultimo sondaggio Gallup, la pena capitale continua a essere approvata dal 56% degli americani; il 42%, invece, vi si oppone.
C’è, dunque, una tendenza umanitaria lenta: cinque anni fa il 63% era favorevole all’esecuzione, il 37% la condannava. La gente non se ne dispiace troppo. Quello che turba alcuni è un altro dato statistico: quello che segnala la continua diminuzione della vita media (si calcolano circa tre anni in meno rispetto agli europei, in particolare agli italiani) e il fatto che questo accada sempre di più ai giovani, non solo i delinquenti ma anche i più sani e savi.
Non si sa, almeno ufficialmente, che soluzione preferiscano coloro cui capita di vedersi offrire la scelta. L’ultimo dato indica una crescente preferenza per il carcere a vita rispetto a una veloce eliminazione per legge. La scelta è comprensibilmente più netta fra i giovani, che sono poi la maggioranza dei condannati a morte, ed è il contrario di quella dei Paesi europei. L’estremo opposto è la Norvegia, che ha abolito da tempo sia la pena di morte sia la prigione a vita. La legge vieta oggi al colpevole di qualsiasi delitto, anche il più atroce, di rimanere in galera più di ventuno anni e sei mesi.
L’ultimo esempio famoso è quello di Anders Behring Breivik, il fanatico che nel 2011 uccise a fucilate 77 persone partecipanti a un festival della gioventù del Partito socialdemocratico (all’epoca al governo) sull’isola di Utoya. Il Paese più vicino e anche il più simile alla Norvegia nei gusti e nelle scelte, la Svezia, pochi giorni fa ha chiuso un’inchiesta durata anni su un condannato per un crimine sessuale che però potrebbe comportare l’estradizione, non direttamente negli Stati Uniti, che lo aspettano per altri reati, quanto in Gran Bretagna, che esclude l’estradizione. Pochi giorni dopo, però, il governo di Stoccolma ha aperto un processo per crimini di guerra contro il ministro della difesa dell’Iraq.
All’altro estremo umanitario, la lunga guerriglia urbana a Hong Kong ha trovato un difensore, vecchio, famoso e benemerito, in Europa: il settantasettenne Lech Walesa, che ha annunciato l’intenzione di recarsi a Hong Kong personalmente nella speranza di una replica dell’evento da lui avviato che condusse alla caduta del regime comunista e alla liberazione della Polonia. Walesa, asceso al primo governo non comunista, non si dimostrò altrettanto esperto come governante e diventò un pensionato con gloria. Qualcosa di equivalente, anche se non simile, toccò a un esponente politico che si recò in visita in Cina e andò a spasso per Pechino incoraggiando gli oppositori pochi giorni prima della strage di Tienanmen. Si chiamava Mikhail Gorbaciov e aveva appena cominciato a liberare l’Unione sovietica.