Corriere della Sera, 3 dicembre 2019
Biografia di Ottavia Piccolo raccontata da lei stessa
«Ma sei così? Mi dice sconfortato Giorgio Strehler un pomeriggio del 1972 al Piccolo Teatro di Milano. Mi osserva meglio: “Oddio, sei un manzo!”. Avevo 23 anni, ero alta un metro e settanta, né grassa né magra. Mi aveva scelto per il ruolo di Cordelia nel Re Lear di Shakespeare, ricordandomi com’ero a 15 anni, quando mi diede la parte di Checca nelle Baruffe chiozzotte di Goldoni. “Visto che sei qui...”».
Niente male per infondere sicurezza in un’attrice. Ottavia Piccolo, fortuna sua, era già una star. Circolava persino la voce che il teatro di Milano si chiamasse così in suo onore. Ma cominciamo dall’inizio. Lei calcava le scene all’età di 11 anni: figlia d’arte?
«Scherza? Mio padre era un maresciallo dei carabinieri di origini pugliesi. Quando sono nata aveva 48 anni. Mamma era nata a Tripoli da genitori marchigiani. Venni alla luce casualmente a Bolzano, dove passai nove mesi nella pancia e altrettanti fuori, poi ci trasferimmo a Roma, quartiere popolare di San Paolo fuori le Mura nelle case del Comune, 30 metri quadrati. Mamma si appassionò al teatro ascoltandolo alla radio. Mai visto dal vivo. Un giorno legge sul giornale che cercano una bambina per Anna dei miracoli, ispirato alla vera storia della sordo-cieca Helen Keller. “Ottavia ci andiamo? Così vediamo com’è fatto un teatro”. Al Quirino di Roma spalancammo gli occhi come bambine nella fabbrica della cioccolata. Mi presero per il fisico: mingherlina, dimostravo meno dei miei 10 anni, capelli biondi lunghi. Poi si accorsero che avevo un modo buffo di stare sul palcoscenico».
Non sarà stato facile farlo accettare a un padre carabiniere.
«Papà mi considerava una cosa miracolosa. Gli avessi chiesto di scalare l’Himalaya, me l’avrebbe concesso, pur di vedermi sorridere. Fu felicissimo. Un po’ meno quando infilammo i nostri quattro stracci nella valigia e andammo in tournée per sette mesi. Rimase solo, con il ricordo della prima ufficiale, a Milano, dove venne e pianse l’anima vedendomi recitare. Quando mi scritturarono, io e mamma ci guardammo incredule: 6.500 lire al giorno; papà portava a casa 35 mila lire al mese. Però mamma disse: “È un gioco, se ti stufi, si torna a casa”. Non avevamo calcolato di dover pagare alberghi e ristoranti. A un certo punto abbiamo dovuto farci mandare un vaglia da Roma».
Le permisero di non andare a scuola?
«Frequentavo un istituto di monache, saltai la prima e, quando tornai, recuperai le tre medie. Lavorando però. L’anno dopo mi diedero una parte in tv con Monica Vitti. Dio mio se ero invidiosa! Faceva tutto lei, io, figlia del custode, solo tre battute. Nel ’63 mi scritturano per interpretare la figlia del principe di Salina nel Gattopardo di Luchino Visconti».
Immagino le suore: povera bambina sulla strada della perdizione...
«La preside era una sveglia. Mi chiama tutta eccitata: “Chi interpreta il principe?”. Burt Lancaster. “Uh, per carità, mica è adatto”. Faceva il tifo per me. Prima degli esami di terza media chiama mamma e dice: “Qui abbiamo le magistrali, se la iscrive chiudiamo un occhio sulle assenze”. Assolutamente no, dico io che sono tignosetta. Faccio un liceo vero. E mi mandano al Virgilio. La mattina scuola, il pomeriggio prove, la sera in teatro. Dopo aver dormito 15 giorni sul banco, getto la spugna. Quando decido di iscrivermi all’Accademia d’Arte drammatica, gli amici che la frequentavano, Gabriele Lavia e Paola Gassman, dicono che sono matta: “Adesso ti vogliono tutti, se stacchi e non ti chiama più nessuno?”. Penso abbiano ragione e cerco di sopperire con un’indigestione di letture. Un anno tutto Shakespeare, ed è una gran marmellata. Il successivo i russi, e il risultato non è migliore».
Luchino Visconti: non le tremavano le gambe?
«Stavo al mio posto e veniva naturale a tutti darmi dei buffetti. Almeno quando non ero in scena. Mamma era discreta, non una di quelle alla Bellissima (“più bella la mia, più bella la mia...”). Quando provavamo si rintanava nei camerini per permettere al regista di rimproverami. Visconti era il direttore del Circo Barnum, una macchina infernale, metteva insieme elefanti, serpenti e giocolieri. Aveva cinque vice e due assistenti. Centinaia di persone correvano su e giù, parlando una lingua diversa. Le maestranze creavano dal nulla scenari. Vivevo in una fiaba. Due mesi a Palermo, poi saltai i quaranta giorni del ballo. Rientrai per le scene girate vicino a Roma. Mi tremavano le gambe quando urlava “più a destra, più a sinistra” e io non capivo. Nel ’66 lo incontro di nuovo per una parte nel Giardino dei ciliegi. Mi avevano dato un testo da imparare a memoria, ma in quel periodo ero cialtrona e fatalista. All’audizione ammetto di non sapere la parte. “Allora recitami una poesia”. “Non so poesie”, rispondo. “Una parte qualunque che sai”. Me la cavo con una battuta e lui mi caccia via a male parole. Arrivo a casa mogia, so di aver esagerato. Squilla il telefono. L’amministratore del teatro mi dice: “Domani venga a firmare, la parte nel Giardino è sua”. Tiranno Visconti? Non più di Strehler, l’uomo a cui devo tutto. Mi ha cresciuta, migliorata, dicendomi cose terribili. L’avevo sempre addosso: “Non sai usare la voce. Non si sente”. Non sapevo fare il salto mortale. “Sai almeno fare una capriola e suonare il flauto?”. Mi veniva la febbre ogni volta che dovevo andare in teatro. Ho ancora il copione dove Gabriele Lavia (impersonava Edgar) mi scriveva di nascosto messaggi: “Sigh! Non gli piaccio”. Eravamo convinti ce l’avesse con noi perché eravamo due personaggi positivi e lui odiava i buoni. Ma mi plasmò, mi diede la forza di andare avanti nei momenti più difficili della mia vita: mentre lavoravo con lui morì mio padre, poi mia madre, mi lasciai con il fidanzato, mi sposai, rimasi incinta... Mi ha dato la consapevolezza dei miei mezzi».
Strehler e anche Luca Ronconi. Con lui fece l’«Orlando furioso», l’opera che gli diede una notorietà mondiale. Com’era?
«Con Ronconi, un genio assoluto, era difficile dialogare. Era timidissimo, tartagliava e a volte non si capiva cosa diceva. L’Orlando fu travagliato, prima facemmo lo spettacolo, poi lo sceneggiato tv e infine il film. Si cominciava e si smetteva perché mancavano i soldi. Era il ’69, avevo vent’anni e, finito lo spettacolo, fuggivo perché stavo girando Metello».
Quel film la trasformò in diva: David di Donatello, Nastro d’argento, Globo d’oro, migliore interpretazione femminile a Cannes. E il flirt con Massimo Ranieri...
«Falso. Era impossibile. Nell’Italia degli anni Sessanta, Massimo era un vero divo, con un cordone sanitario che lo proteggeva persino a cena. Come con Adriano Celentano, quando l’anno prima girai Serafino. Aveva appena inciso Azzurro. Peggio che a Hollywood. Cosa che proprio non amo. I miei modelli non erano Sophia Loren o Gina Lollobrigida, erano Vanessa Redgrave, Julie Christie, Glenda Jackson. Non sopporto chi si atteggia: “Oddio, non mi parlare che sto entrando nel personaggio”. Voglio vedere se non ti sposti quando casca il riflettore perché sei nel personaggio... In tv poi ho fatto parti in sceneggiati non da stadio. Oltre all’Orlando furioso, Il mulino del Po, La coscienza di Zeno...».
Certo, ha rifiutato di fare la Perla di Labuan in «Sandokan». In compenso è tornata a lavorare con Alain Delon in «Zorro». Lei è felicemente sposata da 45 anni, ma un minimo di fascino l’avrà pur subito?
«Non quello di Delon, gran professionista. Il primo giorno delle riprese di Zorro arriva, va dall’operatore delle luci, si leva i Ray-Ban, e dice: “Di che colore sono questi occhi?”. “Azzurri”. “Con questi io ci mangio da anni. Mi raccomando, già la mascherina mi gioca contro...”. Quanto a Sandokan, semplicemente non mi andava di allontanarmi troppo dall’Italia».
Ci fu una parentesi politica. Come mai si candidò nelle liste del Psi?
«Me lo chiese Claudio Martelli, di cui ero amica. Alla fine degli anni Settanta Milano era la città del teatro. Era sindaco Aldo Aniasi, c’era Carlo Fontana. Io e mio marito ci trasferimmo per riaprire il Carcano insieme ad altri. Era una città vivace e il mio mondo ruotava attorno ad alcuni ambienti socialisti. Craxi sembrava il nuovo: sapeva prendere decisioni. Non le so dire perché cedetti alle insistenze di Claudio, ma quando mi disse che dovevo tenere dei comizi risposi: “Io so parlare con le parole degli altri, non con le mie”. Presi pochi voti e la mia carriera politica finì, anche perché, di lì a poco, si cominciarono a vedere cose che sarebbero poi sfociate in Tangentopoli».