la Repubblica, 3 dicembre 2019
Storia della Tosca
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Tosca nasce diva e ha il carisma di Sarah Bernhardt. Puccini ne resta folgorato già nel 1889, quando la ammira ne La Tosca di Victorien Sardou ai Filodrammatici di Milano durante la sua seconda tournée italiana. Eppure l’opera che impasta in un vortice assoluto passione e tradimento, libertà e tirannide, sacro e blasfemo non sboccia subito. La trattativa per i diritti va per le lunghe. Sardou alza il prezzo. Fa le pulci al libretto abbozzato da Luigi Illica. Giuseppe Giacosa nutre forti dubbi sulla possibilità di fare di quel testo poesia per musica. Persino Giulio Ricordi vuole affidare la partitura ad Alberto Franchetti, che però rinuncia. Così è solo nella tarda primavera del 1896 che Puccini mette mano alla penna, galvanizzato dal successo di Bohème. Al fatidico 1800 della battaglia di Marengo il maestro è oltretutto legato anche da un curioso ricordo di famiglia. Per celebrare la caduta di Genova, gli Austriaci che occupano Lucca commissionano quell’anno al nonno Domenico un inno e un Te Deum con banda militare eseguito in cattedrale l’8 giugno.
Tosca è oggi in assoluto fra le opere più rappresentate al mondo appena dopo Traviata, Il flauto magico, Carmen e Bohème. Si può fare una Tosca filologica e innovativa, fedele e trasgressiva, inedita e rassicurante? Domanda retorica: alla Scala sì. Riccardo Chailly tiene aperta sul leggio l’edizione critica di Roger Parker. Il capolavoro come lo ascoltarono gli spettatori del Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900. Via tanta tradizione incrostata. Dentro, minuti di musica mai più sentita da allora. Dopo Turandot, La fanciulla del West, Madama Butterfly eManon Lescaut, Chailly sta compiendo a Milano un’epocale Puccini-Renaissance. Una resurrezione paragonabile solo a quella toccata a Gioachino Rossini: con la differenza che pochi canticchiano Ermione sotto la doccia. Star assoluta è ancora una volta Anna Netrebko, alla sua quarta inaugurazione scaligera e trionfale Tosca al Met e a Monaco. Il tenore Francesco Meli è Mario Cavaradossi, il baritono Luca Salsi Scarpia, entrambi al secondo Sant’Ambrogio con Chailly rispettivamente dopo Giovanna d’Arco del 2015 e Andrea Chénier del 2017. Il basso Vladimir Sazdovski è Angelotti, Alfonso Antoniozzi il sacrestano, Carlo Bosi Spoletta e Giulio Mastrototaro Sciarrone.
Stavolta nessuna trasposizione moderna. Dopo l’Attila novecentesco, Davide Livermore mantiene l’azione nella torva e splendente Roma papalina del 1800. I video, sempre firmati dallo studio Giò Forma, promettono sfondamenti spaziali dentro e fuori la scena. Ma niente di velleitario. Il regista torinese traduce in motore, azione e ciak una cosa talmente naturale che non ce ne rendiamo neanche conto: Puccini non fa opera. Fa cinema. La sua musica prefigura tecniche che il libretto rende possibili ma non scontate e che il linguaggio della celluloide attuerà solo in decenni. Personaggi pedinati in piano sequenza, frugati come in una macro, controcampi, montaggi alternati. Persino il ralenti e il fermo immagine: quell’ostinato del terzo atto mentre si aspetta la fucilazione monta una suspence che ti leva la pelle. E quando Scarpia chiude fuori dalla finestra di Palazzo Farnese la cantata che sale dal piano di sotto fa un cutting degno di ?jzenštejn. Chi il 7 dicembre non potrà essere in teatro non si perda almeno la diretta in hd su RaiUno.