la Repubblica, 3 dicembre 2019
Il controllo facciale in Cina
Chi vuole metterci la faccia, come i milioni di cinesi che pagano al supermercato sorridendo a favore di telecamera. E chi è costretto a mettercela, come i milioni di musulmani internati nei campi di rieducazione dello Xinjiang, monitorati notte e giorno da occhi elettronici. Si muove tra questi due estremi, utopia innovativa e distopia orwelliana, la tecnologia di frontiera che la Cina sta rendendo quotidiana, in anticipo sul resto del mondo: il riconoscimento facciale. Perché i connotati sono la cosa più unica che possediamo, immediati da rilevare, (quasi) impossibili da falsificare. Nulla di più allettante per il Partito comunista, ossessionato dal controllo della popolazione. Ma un sollievo anche per molti cittadini, il cui livello di fiducia verso il prossimo non è alto, essendo truffe, raggiri e furti di identità all’ordine del giorno.
Così in questo incrocio di insicurezze il riconoscimento facciale dilaga in ogni aspetto del vivere. L’ultimo obbligo è quello di farsi scannerizzare il viso quando si acquista una carta Sim, cioè un numero di telefono, per verificare che il documento di identità non sia falso. Il governo vuole che ogni smartphone abbia un cognome e un nome, anche perché in Cina è quello il canale di accesso a Internet. L’aspetto stupefacente è la quasi totale assenza di obiezioni: sui social moltissimi favorevoli, pochi contrari. Ma è stato così per ogni novità legata all’utilizzo del viso. Alipay e Wechat, le app portafoglio, lo stanno introducendo per i pagamenti: alla cassa del negozio o al check-in dell’hotel basta un’occhiata. Diverse città dell’Impero, compresa Pechino, lo sperimentano agli accessi della metro. La polizia lo sfrutta per scovare ricercati tra la folla dei concerti. Dietro alla telecamera c’è sempre più intelligenza (artificiale) in grado di confrontare e riconoscere: la forniscono società leader mondiali come Megvii, SenseTime o Hikvision, coccolate dal regime e temutissime dagli Stati Uniti.
Non che il favore sia unanime. Qualche settimana fa un professore universitario ha fatto causa a uno zoo dello Zhejiang per l’obbligo di farsi scannerizzare la faccia, portando per la prima volta il tema in un’aula di tribunale. Mentre le proteste dei genitori hanno convinto il ministero dell’Istruzione a sospendere i progetti di monitoraggio dei ragazzi, con telecamere in grado di rilevarne il livello di attenzione. Secondo alcuni sono i primi indizi di una presa di coscienza della classe media: presto la privacy affiancherà altri temi sensibili come ambiente e educazione, costringendo il Partito a venire a patti. Per il momento però il popolo protesta soprattutto per possibili furti o abusi di dati da parte di aziende private, non contro il governo. Anche il sistema di rating individuale che Xi Jinping vorrebbe introdurre, descritto in Occidente come la nuova frontiera del controllo comunista, è ben accetto. Non sapere quanto è affidabile chi ti sta di fronte è un enorme preoccupazione in Cina. E mian zi, la faccia, è un sinonimo di reputazione.
Nel frattempo le metropoli del Dragone sono diventate le più videosorvegliate al mondo. Sono sicure, vero, ma a che prezzo? Fino a poco tempo fa Pechino si difendeva dicendo che Londra ha più telecamere, ma oggi il primato è passato a Chongqing, 2 milioni e 600 mila occhi elettronici, uno ogni sei abitanti, mentre 8 delle prime 10 città in classifica sono cinesi. In Xinjiang la minoranza uigura di fede musulmana viene sottoposta a un controllo capillare e intrusivo, considerato una violazione dei diritti umani. Il modello fa proseliti nel resto dei Paesi in via di sviluppo, lungo la Via della seta la Cina e le sue aziende esportano a autocrati di mezzo mondo questo pacchetto sorveglianza. Di cui il riconoscimento facciale è il pilastro.