il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2019
Un giorno con Elizabeth Warren
Se pensate che la politica a colpi di selfie sia una barbarie populista degna di Matteo Salvini, dovreste vedere uno degli eventi elettorali di Elizabeth Warren, la candidata dei Democratici americani che vuole sconfiggere Donald Trump, Mark Zuckerberg e la corruzione di Washington in un colpo solo, nel 2020. “Tutti in fila, chi ha bambini ha la precedenza”, dicono dal microfono. E mentre sfumano le note di Bruce Springsteen, gran parte delle 3.200 persone riunite al town hall di Broadway, quartiere nord di Chicago, si mette in fila per due. E comincia il rito laico della campagna elettorale 2019-2020: la fila per il selfie con Elizabeth Warren. Lei si ferma, oltre tre ore. Tutti devono avere un selfie da condividere su Instagram. Un attimo di contatto trasforma anche l’elettore in un attivista che diffonde il messaggio.
Con questo esercito di persone normali Elizabeth Warren vuole resistere all’assalto di Mike Bloomberg, il miliardario che prima di entrare nella corsa per le primarie Democratiche ha già comprato spazi pubblicitari in tv per 30 milioni di dollari. “I miliardari si stanno passando la voce: ‘per favore, corri tu per la Casa Bianca, fai qualcosa’, sono in cima alla loro lista di nemici”, dice Elizabeth Warren mentre i fan scandiscono il suo slogan “Two cent”, una tassa del due per cento annuo sulle ricchezze sopra i 50 milioni di dollari. Un sacrificio per 75.000 persone che dovrebbe generare 2.750 miliardi di dollari in dieci anni, abbastanza per pagare asili per tutti, cancellare il debito universitario degli ex studenti, dare risorse ai college a maggioranza afroamericana. Il suo gadget più venduto è la tazza per raccogliere “lacrime di miliardario”.
Negli Stati Uniti la politica si decide in televisione, ma ha ancora una dimensione di territorio. La fila fuori dal town hall di Chicago è già lunghissima alle 4 del pomeriggio, due ore e mezzo prima del comizio. Per accedere bisogna mandare un sms a un numero elettorale, arriva all’istante la risposta: la foto di un cane con la lingua di fuori (si chiama Bailey), bisogna mostrarla al volontario per ricevere un adesivo che permette di accedere all’evento. Così la campagna della Warren ha tutti i contatti dei partecipanti: il giorno dopo cominciano i messaggi, “Com’è stata l’esperienza di Chicago?”. Un volontario distribuisce tagliandi rossi numerati. Prima del comizio, vengono estratti i tre fortunati che potranno fare una domanda alla Warren. I dibattiti tv tra i candidati democratici – uno al mese, finora – sono maratone di tre ore con dieci sfidanti sul palco.
Li guardano in 14 milioni, ma per molti potenziali elettori vedere un candidato dal vivo è decisivo per farsi un’idea. Elizabeth Warren lo sa e tutto l’evento è costruito per definire il suo personaggio. La Warren non dice mai che sarebbe il primo presidente donna, non è quello il suo messaggio, ma sul palco salgono soltanto donne: a scaldare la platea ci pensa Tamar Manasseh, un attivista (nera) che ha fondato un’associazione di madri contro le morti da arma da fuoco. Poi la deputata Democratica dell’Illinois, Jan Schakowsky: discorso scritto, tradizionale, ma è un endorsement importante per la Warren che ha pochi appoggi nel partito. Alla fine arriva lei: ha 70 anni ma fa di tutto per non dimostrarlo, ha un’energia nervosa che la porta a scattare da un bordo all’altro del palco, saluta il figlio Alex in fondo alla sala (un omone di 43 anni). I 3.200 del town hall si ammutoliscono mentre la Warren si produce nel suo repertorio migliore, la storia di una working class hero: l’infarto del padre, la famiglia che rischia di perdere la casa, ma madre che “si mette i tacchi alti” e va a cercare un lavoro, ne trova uno con il salario minimo (“allora un salario minimo bastava a sostenere una famiglia intera”), Elizabeth studia di notte, diventa insegnante di sostegno in una scuola pubblica – “il mio sogno” – poi resta incinta, viene licenziata, si rimette a studiare, diventa avvocato “per 45 minuti” e torna a insegnare “alla scuola di legge”. Omette di dire che quella “scuola di legge” è Harvard, dove lei costruisce la sua carriera da esperta di finanza e diritto fallimentare. Nominare Harvard distruggerebbe ogni empatia.
Poi la fase successiva, da esperta di finanza, a fianco di Barack Obama per costruire l’agenzia che oggi protegge i risparmiatori dalle trappole in cui sono caduti nella crisi del 2008, la candidatura al Senato per il Massachusetts e, ora, la corsa verso la Casa Bianca con un piano in tre parti: “Combattere la corruzione, fare riforme strutturali, salvare la nostra democrazia”. Perché è la corruzione, dice la Warren, che spinge il governo a preoccuparsi dei ricchi e non dei poveri e a bloccare leggi che larghe maggioranze invocano, come il controllo delle armi; poi bisogna ricostruire il welfare state e cancellare le norme che distorcono la competizione elettorale, dagli ostacoli burocratici che limitano il voto delle minoranze ai fondi Pac pagati dalle grandi aziende a sostegno dei candidati amici. “I have a plan”, ripete. Nei prossimi mesi si capirà se quel piano basta a renderla la sfidante di Donald Trump, al momento è terza nei sondaggi, dietro Joe Biden e Bernie Sanders. Per ora è abbastanza convincente da spingere migliaia di persone a passare ore in fila nel freddo di Chicago per vederla e altre ore per avere un selfie insieme.