Dl nostro non è il secolo del romanzo. In Italia, oggi, non esistono romanzi: soltanto ombre, finzioni, spettri di romanzi. Qualche romanzo, ma non straordinario, viene scritto negli Stati Uniti e in Inghilterra. L’invenzione del romanzo cominciò con un immenso capolavoro: Omero, e continuò per secoli dalla Princesse de Clèves a Tom Jones al Tristram Shandy ai Promessi sposi e a Madame Bovary e all’infinita narrativa del diciannovesimo e del ventesimo secolo.
Non posso assolutamente dimenticare un romanzo che io considero bello, Rocambole. Pierre-Alexis Ponson du Terrail, nato nel 1829, debuttò nell’industria culturale a vent’anni, prima con quattro volumi, poi con sei, poi con otto e dieci, sinché nel 1854, a venticinque anni, pubblicò il primo volume di Rocambole che potete leggere in molte edizioni (rocambole era una specie di aglio spagnolo meno aspro di quello ordinario).
Poiché scriveva cinque romanzi contemporaneamente, aveva sistemato, come Giovanni Pascoli, cinque tavoli nel proprio studio e sopra ogni tavolo disponeva tanti pupazzi quanti erano i personaggi del romanzo che stava componendo. Morì a quarantun anni, dopo aver fabbricato ottanta volumi, uno dopo l’altro o, meglio, uno insieme all’altro, o addosso all’altro, vorticosamente, follemente, ma non senza genio. Come dice Jean Cocteau, «la paura del ridicolo paralizza troppi artisti».
Certo, Pierre-Alexis Ponson du Terrail non ebbe nessuna paura del ridicolo. Nessun vero scrittore ha paura del ridicolo: né Fielding, né Sterne, né Manzoni, né Dumas, né Flaubert, né Proust, e nemmeno Robbe-Grillet, che tutti oggi hanno ingiustamente dimenticato. Rocambole comincia molto lontano, nel 1812, con la campagna di Russia: la grande Armata si ritira, Napoleone ha perso la testa, Mosca e il Cremlino bruciano, i francesi annegano nella Beresina e fuggono verso Parigi. Incontriamo tre ussari: il primo indossa un’uniforme a brandelli, su cui spiccano le spalline da colonnello, ha il braccio destro al collo e la testa fasciata con bende insanguinate: una pallottola vagabonda l’ha ferito al gomito e un colpo di sciabola gli ha aperto una larga ferita sulla fronte, mentre i russi lo inseguono come lupi famelici. Il secondo ussaro era un capitano italiano, un certo Felipone, che possedeva tutti i difetti dei popoli inferiori: avido e vendicativo, violento e falso e strisciante, basso, crudele e scontroso. Aveva «un riso infernale sulle labbra», come ama dire Ponson du Terrail. Passano gli anni. Siamo a Roma nel 1840, ventiquattro anni dopo, a Trastevere. Nella città papalina, c’è un odore di incenso e di vecchi preti malvestiti e male odoranti. Tutti portano un pugnale alla cintola come un amico fedele, pronti a scannare e ad uccidere. «L’Italia – dice Ponson du Terrail – è sempre stata la patria dei drammi e dei delitti». L’aria è tiepida e dolce: le donne filano, i bambini giocano per le strade, ascoltando una canzone popolare che risuona nelle vie strette e tortuose. Non è ancora notte. Un ultimo raggio di sole va spegnendosi nell’acqua del Tevere, dorando i tetti degli edifici e le vetrate delle chiese di porpora e d’oro. Gli uomini fumano gravemente, ascoltando la canzone di un vagabondo. Riappare il capitano, poi colonnello Felipone, sempre più vendicativo e crudele: attorno a sé ha un’aria di vendetta e di morte. È "un cattivo genio". Poi appaiono le ragazze: una incantevole, Cerise, piccola e delicata, con gli occhi azzurri e i capelli biondo cenere, un fiore dischiuso al tiepido sole del mondo. Lavora e confeziona fiori finti: alta, slanciata, bianca come un giglio, incline a lasciarsi abbindolare dai fannulloni in guanti gialli che portano un pezzo di vetro davanti all’occhio, per riuscire ad affascinare meglio.
L’altra ragazza, sua sorella, che ricorda una figura di Balzac nelle Illusioni perdute, fa la bella vita, ha carrozze e cavalli, un vecchio palazzo e porta lo strano nome di Baccarat: ha il sorriso di una belva; è una tigre senza cuore e senza amore, che adora il denaro e lascia che gli uomini si uccidano per lei o la paghino a carissimo prezzo, come si fa con le autentiche cortigiane. «Una vestaglia di velluto azzurro cupo metteva in risalto la sua figura flessuosa e voluttuosa e i suoi capelli inanellati che cadevano con riccioli d’oro sulle sue spalle eleganti. Aveva gioielli e medaglie». Non c’è nulla che Ponson du Terrail ami come il lusso, il sesso, il vizio, l’orgia. Baccarat parla di musica, di pittura e di vestiti – sopratutto di gioielli per i quali ha una debolezza pericolosa, posseduta com’è «dai costosi capricci delle cortigiane ». Non si fa mancare nulla. Possiede due cavalli, un cocchio, una cuoca, una cameriera e un giardiniere. Qualche volta, chissà perché, è malinconica; e allora lascia scorrere le sue dita sulla tastiera, eseguendo La dernière pensée di Weber, e recitando la parte della "vergine folle". Con un nuovo balzo (nessuno è più mobile ed agile del grasso Ponson du Terrail) il racconto si sposta a Parigi, nella collina di Montmartre, la rue Blanche, la rue Pigalle, la rue Perret – gli stessi nomi cari a Dumas e a Balzac. Ci sono inviti lussuosi. «O grande città», esclama una specie di Rastignac-Rubempré. "Vedete questa immensa città? Ebbene, per l’uomo che dispone di tempo e danaro ci sono donne da incantare e da sedurre».
Il fondamento di Rocambole è la storia di due fratelli nemici: Armando e Andrea che si combattono selvaggiamente. Il migliore, Armando, è uno scultore, dagli sguardi alteri, dolci e malinconici: «Il mio futuro – dice - è il mio scalpello, il mio compito è fare il bene e combattere il male». Aiuta, soccorre, impedisce qualsiasi scherno o violenza. Poi il libro precipita: c’è un inglese malvagio e dai capelli fulvi. Ci sono duelli: due ufficiali si battono alla pistola: o giocano al casinò – ma, all’improvviso, un grido di agonia, poi silenzio, e sangue umano sparso.
C’è l’aria dei futuri Miserabili. «Il male – dice Andrea – trionferà perché il male sono io». «So attirare le donne come un rettile sa affascinare gli uccelli », insiste. C’è seduzione, violenza, delitto, orrore: nervosismi intrattabili, feroci istinti, stupri, brutalità indefinibili, deliri infernali, ricchezze spropositate. Tutto si conclude con il trionfo del male: con la violenza di Andrea; e nuovi episodi, che alternano, per sempre, male e male, delitto e delitto, crimine e crimine.