La Stampa, 2 dicembre 2019
Intervista a Lucia Lavia
Pochi attori possono dire come Lucia Lavia che il teatro è la loro casa. Figlia di Gabriele e Monica Guerritore, sorella di Lorenzo attore/regista e di Maria agente teatrale, da poco insignita del Premio Duse come miglior attrice emergente, quando la incontriamo è ancora emozionata, commossa e eccitata per il riconoscimento. Ha quasi il fiatone. E sembra ancora più giovane. La guardi e vedi sua madre. E poi, cangiante, subito dopo, il padre.
Ventisette anni, ha alle spalle una bella sequenza di titoli e registi a dare peso alla sua carriera: Celestina, laggiù vicino alle concerie in riva al fiume per Luca Ronconi, Ifigenia in Aulide con Federico Tiezzi, Madame Bovary e Romeo e Giulietta per Andrea Baracco, Shakespeare in love con Giampiero Solari, Costruttore Solness di Alessandro Serra. Per non parlare dei quattro spettacoli che ha interpretato con il padre: Il malato immaginario, Tutto per bene, Sei personaggi in cerca d’autore, Vita di Galileo.
Il teatro l’ha respirato fin da bambina.
«Io e i miei fratelli abbiamo avuto la fortuna di una vita regolare. Non per questo non andavamo a vedere i nostri genitori. Così fin da piccola ho sentito il teatro come il mio elemento e recitare mi ha contagiata come un virus. Lo facevo davanti allo specchio in camera, solo per me. Mi ricordo ragazzina dietro le quinte dell’Avaro di cui ripetevo a memoria le battute. Il mio desiderio di essere là, con mio padre, sotto le luci… Ricordo l’odore tipico dei teatri, quello del grasso con cui si trattano le corde: mi piaceva tanto e purtroppo oggi, che in teatro di sto sempre, non lo sento quasi più».
Dal liceo è passata al palcoscenico, senza passare dal via, le scuole di recitazione.
«Volevo iscrivermi all’Accademia. Ma mio padre mi volle con sé per Il malato immaginario. La mia scuola è stata lui. Una formazione dura, sul campo. E lui più severo con me che con gli altri. Il nostro rapporto si è rafforzato moltissimo. Ma da quattro anni non siamo più insieme».
Non ha sentito la mancanza di una scuola?
«Per niente. O meglio: forse mi manca una certa leggerezza che le scuole sanno darti. Una scuola però, anche se atipica, l’ho fatta, quella di Santa Cristina di Luca Ronconi. Anche lui è stato un grande maestro. Tutti lo descrivevano come burbero e terribile, e l’ho trovato affettuoso e gentile».
Forse in confronto a suo padre… Però è stata sua madre a farla debuttare, in «Teresa d’Avila».
«Avevo 12 anni. Mi disse "Vuoi fare questa piccola cosa con me?": erano poche battute, per una sola sera ad Anagni. Ero gasatissima».
E che ci dice dei pregiudizi circa i figli d’arte, soprattutto se «arruolati» dal genitore?
«All’inizio ero inconsapevole. Per me erano persone normali, mica due giganti del teatro. Poi sono entrata in quel mondo e ho scoperto che c’è chi ti "addita" e per un po’ ne ho sofferto. Ora mi sento libera: nessuno ti dà nulla se non lo meriti, neppure un padre».
Il Duse, molto prestigioso oltre che l’unico in Italia destinato alle sole attrici, è la conferma delle sue qualità.
«È un premio al mio percorso. Circa la bravura, sono una perfezionista piena di mille incertezze: sto lavorando ancora per crescere. Non vedo l’ora di invecchiare e avere l’età giusta per interpretare opere come Elettra, Un tram che si chiama desiderio, Chi ha paura di Virginia Wolf».
A gennaio riprenderà la tournée de «Il costruttore Sollsess» con Umberto Orsini.
«Uno spettacolo che mi ha fatto scoprire nuove corde: per la prima volta io, che amo i ruoli temperamentosi, ho dovuto confrontarmi con un personaggio delicato e una recitazione asciutta».
E la Lucia privata come è?
«Una ragazza indipendente, con molti amici. Una single che non si danna perché non ha una relazione stabile. Che ama leggere e ha una strana ansia da librerie: penso che da qualche parte ci sia il libro perfetto per me, che mi potrebbe cambiare la vita, ma non so dove è, qual è e se lo troverò mai».